Dovrebbe nascere a sud, intorno a Rogoredo oppure a Baggio. È questo il muro portante che regge l'architettura della sua sfida al pessimismo italiano, per il rilancio del Milan, o come la chiama lui: rigenerazione. Crescita dei ricavi, sostenibilità, autosufficienza economica, in attesa del verdetto Uefa sul fair play finanziario. Gazidis sa di essersi preso un rischio arrivando in Serie A. È uscito dalla sua comfort zone, dovrà mettersi a studiare la lingua italiana e la nostra cultura calcistica, conscio che potrebbe toccargli l'impopolarità per dover reinventare un club con tanta eredità e tanto passato.
Depersonalizzare il Milan, portarlo fuori dall'ombra di Berlusconi è già una grossa sfida.
Per il suo viaggio nel futuro, il Milan si è messo in casa un uomo con due anime. Gazidis usa il vocabolario dei sentimentali ma sa come si guardano i numeri dentro i fogli Excel. Il calcio gli pare un'espressione della nostra sfera interiore, perciò è convinto che conti non solo dove si arriva, ma come. Perciò l'Academy - i local boy li chiama - saranno una componente essenziale di questo processo identitario che una partita di pallone scatena.
Arrivare in alto facendo nascere nuovi Paolo Maldini renderebbe orgogliosi sia i romantici sia i revisori dei conti, al momento delle cessioni e delle plusvalenze.
Secondo Gazidis, il calcio italiano aveva il mondo in mano venti anni fa, ma l'ha gettato via per non aver investito, per poca fame di progresso.
Non lo vedremo spesso in tv, si definisce un introverso funzionale. La sua storia familiare lo ha formato. È nato in Sudafrica negli anni in cui suo padre Costa era in prigione, colpevole di militanza nel movimento anti-apartheid di Mandela, lui, bianco. Quando nacque Ivan, le guardie carcerarie gli dissero che il bimbo era morto durante il parto. Gli negarono di partecipare al funerale del padre, lo tennero sei mesi in isolamento. La polizia segreta teneva d'occhio Costa già alla Wits University, dove da giovane studente di medicina si era ribellato al protocollo delle lezioni di autopsia: un cadavere nero era laboratorio per tutti, uno bianco solo per bianchi.
Nella missione italiana, Gazidis è supportato dal fondo Elliott e da un manager milanista, Giorgio Furlani, che nel 2007 cercava un televisore nel deserto di Atacama per guardare la finale di Champions contro il Liverpool.
Elliott non ha più una timeline di uscita, ma una target-line: lascerà quando il Milan sarà di nuovo centrale. Probabilmente quando sarà una franchigia del neo-calcio che si prepara, un passaggio dinamico dentro la guerra di potere tra Fifa, Eca e Uefa sui nuovi format dei tornei. Gazidis aspetta. È convinto che saranno i tifosi a indicare il modello gradito. Un uomo di 54 anni come lui sarebbe per natura propenso a considerare più autentico il calcio della tradizione, ma l'osservazione dei nuovi modelli di fruizione da parte dei prossimi clienti, dai 10 anni in su, lo spinge a ragionare sulla Cosa del calcio: la Superchampions. Con Paolo Scaroni delegato ai rapporti in Lega, il Milan spingerà per quella che secondo Gazidis non dovrà essere una rivoluzione, ma un'evoluzione. Potremmo trovarci un campionato europeo nel weekend a sistema misto, inviti e qualificazioni, in cui i grandi club cari agli spettatori di Usa e Cina si vedono riconosciuto un posto fisso. Dentro questa idea di calcio, di cui in Italia la Juventus è il primo ingegnere, il Milan vuole esserci. Gazidis dice con giovani e sostenibilità. Poi magari cambia idea e si compra Messi.
(la Repubblica, 11 dicembre 2018)
Arrivare in alto facendo nascere nuovi Paolo Maldini renderebbe orgogliosi sia i romantici sia i revisori dei conti, al momento delle cessioni e delle plusvalenze.
Secondo Gazidis, il calcio italiano aveva il mondo in mano venti anni fa, ma l'ha gettato via per non aver investito, per poca fame di progresso.
Non lo vedremo spesso in tv, si definisce un introverso funzionale. La sua storia familiare lo ha formato. È nato in Sudafrica negli anni in cui suo padre Costa era in prigione, colpevole di militanza nel movimento anti-apartheid di Mandela, lui, bianco. Quando nacque Ivan, le guardie carcerarie gli dissero che il bimbo era morto durante il parto. Gli negarono di partecipare al funerale del padre, lo tennero sei mesi in isolamento. La polizia segreta teneva d'occhio Costa già alla Wits University, dove da giovane studente di medicina si era ribellato al protocollo delle lezioni di autopsia: un cadavere nero era laboratorio per tutti, uno bianco solo per bianchi.
Nella missione italiana, Gazidis è supportato dal fondo Elliott e da un manager milanista, Giorgio Furlani, che nel 2007 cercava un televisore nel deserto di Atacama per guardare la finale di Champions contro il Liverpool.
Elliott non ha più una timeline di uscita, ma una target-line: lascerà quando il Milan sarà di nuovo centrale. Probabilmente quando sarà una franchigia del neo-calcio che si prepara, un passaggio dinamico dentro la guerra di potere tra Fifa, Eca e Uefa sui nuovi format dei tornei. Gazidis aspetta. È convinto che saranno i tifosi a indicare il modello gradito. Un uomo di 54 anni come lui sarebbe per natura propenso a considerare più autentico il calcio della tradizione, ma l'osservazione dei nuovi modelli di fruizione da parte dei prossimi clienti, dai 10 anni in su, lo spinge a ragionare sulla Cosa del calcio: la Superchampions. Con Paolo Scaroni delegato ai rapporti in Lega, il Milan spingerà per quella che secondo Gazidis non dovrà essere una rivoluzione, ma un'evoluzione. Potremmo trovarci un campionato europeo nel weekend a sistema misto, inviti e qualificazioni, in cui i grandi club cari agli spettatori di Usa e Cina si vedono riconosciuto un posto fisso. Dentro questa idea di calcio, di cui in Italia la Juventus è il primo ingegnere, il Milan vuole esserci. Gazidis dice con giovani e sostenibilità. Poi magari cambia idea e si compra Messi.
(la Repubblica, 11 dicembre 2018)
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