giovedì 30 agosto 2018
Sulla pelle di Stefano Cucchi
Ora il mondo saprà di Cucchi - Cucchi Stefano, che avrebbe compiuto quarant'anni a ottobre e che invece è morto a trentuno nella stanza numero 16 al primo piano del reparto di medicina protetta all'ospedale Sandro Pertini, oltre il cancello, oltre le sbarre, rannicchiato vicino alla finestra, dicono fossero le cinque e trenta del mattino. È stata la tragedia italiana di un ragazzo e della sua famiglia che dal 2009 chiede giustizia, mentre ancora si tiene il processo d’appello bis per quella morte avvenuta sei giorni dopo un arresto: tre carabinieri imputati di omicidio preterintenzionale, un maresciallo che risponde dei reati di calunnia e falso. “Non siamo riusciti a salvarti ma te lo avevo promesso che non sarebbe finita lì”, così ha scritto la sorella Ilaria qualche settimana fa sulla sua pagina facebook seguita da 270mila persone, nel giorno del lancio del trailer di Sulla mia pelle, il film sugli ultimi giorni di Cucchi diretto da Alessio Cremonini che aprirà la sezione “Orizzonti” della Mostra di Venezia. Il mondo saprà di Stefano perché, insieme a Lucky Red, il film è distribuito da Netflix nel suo bacino di 190 paesi: per la prima volta in assoluto sarà disponibile in streaming (dal 12 settembre) in contemporanea all'uscita nelle sale, fra le proteste delle associazioni degli esercenti. Il clima? Un mese fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini si schierava contro il ddl sul reato di tortura: “Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”.
Alessandro Borghi ha gli stessi anni che Stefano avrà per sempre. Quando Cucchi morì, lui cominciava a recitare piccoli ruoli per la televisione dopo aver fatto lo stuntman a Cinecittà. Oggi ha quattro candidature ai David di Donatello alle spalle e questo ruolo in cui non è mai meno di straordinario. Racconta che per girare il film s’è calato nell'agonia di un coetaneo “campando come dentro una bolla, come se la mia vita non avesse più nulla a che fare con me”, lui che da ragazzo rimase sconvolto dalla notizia. “Ero terrorizzato dall'idea di essere Cucchi. Non sapevo se tanto coinvolgimento emotivo avrebbe aiutato, avevo bisogno di azzerare il mio giudizio su questa faccenda: l’odissea di un ragazzo solo, abbandonato dalle istituzioni”.
Con la sua faccia porterà questa storia italiana nel mondo. Ne ha sentita la responsabilità?
“Se in Sudamerica un giorno mi dovessero fermare in strada chiedendomi di Cucchi, ne sarei felicissimo. Non credevamo che Netflix fosse interessata a portare un film del genere nel mondo. Io all'inizio lo temevo anche un po’. Mi mancava il fiato al pensiero che si potesse vedere non in sala ma a casa, mentre si scola la pasta. Invece è un atto di coraggio. Una bella sorpresa. Ma il film l’ho fatto prima di tutto per il mio paese, perché credo che nell'Italia di oggi sia importante parlare di Stefano, come di Giulio Regeni. Ogni volta che si ha a che fare col potere, in questo paese diventa difficile conoscere la verità. Porterò il film ovunque vorranno: nelle piazze, nelle carceri, nelle scuole. Ma non mi chiedete di intervenire in tv nei programmi di politica. Se mi trovassi seduto accanto a qualcuno che racconta la storia di Cucchi morto perché tossicodipendente, dovrei andarmene o prendere una querela. Ho fatto il film per dimostrare che il cinema può essere un mezzo di informazione”.
Come ha portato nel suo corpo la sofferenza di Cucchi?
“Ho perso 18 chili in meno di tre mesi, chiamavo la nutrizionista alle 4 del mattino perché durante le riprese dovevo continuare a dimagrire. Il fisico è stato l’ostacolo più grande. Sono arrivato a una privazione di cibo che mi ha reso insopportabile, ma mi costringeva alla concentrazione. Quando allo specchio ho visto l’ombra di Stefano, mi sono detto che era fatta e avrei dovuto seguire il cuore. Non sono un attore di metodo, lascio il personaggio sul set e a casa torno Alessandro, ma stavolta è stato diverso”.
Perché?
“Perché non potevo permettermi di tornare Alessandro. Avrei dovuto cenare, uscire, andare a bere con un amico. Sono arrivato a pesare 62 chili e mezzo. Mi sono messo a studiare il corpo. Ho scoperto che quando supera una soglia, entra in allarme: rende più acuti i sensi. Bevendo un bicchiere di vino pesavo 8 etti in più, con le verdure crude non ero lo stesso che con le cotte. Se torni a casa dopo essere stato 12 ore sdraiato su un lettino di ospedale, non sei la persona più simpatica del mondo. Per quattro settimane sono stato chiuso in casa”.
Cosa ha potuto studiare di Cucchi?
“Mi sono aggrappato ai pochi documenti in giro. Avevo bisogno di lavorare sulla gestualità e la voce. L’audio originale del processo è stato oro, lì si percepisce la debolezza del suo stato d’animo. Da un programma di Mentana ho recuperato due frammenti da 8 e 5 secondi in cui Stefano soffiava le candeline al compleanno e parlava con suo padre. Ho preso questi tre elementi e li ho mandati in loop cercando di farmeli entrare dentro. Non volevo imitare ma lasciarmi influenzare. Il libro di Carlo Bonini mi ha messo nella testa una scaletta delle cose accadute dall’arresto alla morte. Ho trascritto su un quaderno tutti i punti. Ho ripescato nelle sensazioni di nove anni fa, nella paura che potesse accadere a un fratello o un amico mio. Non ci ha aiutato nessuno, ed era normale aspettarselo: tutte le ricostruzioni degli interni e dei camion dei Carabinieri, le abbiamo fatte da soli”.
Qual è il giudizio da cui diceva di essersi dovuto distaccare?
“Il film a un certo punto si ferma, ma io so che Stefano è stato ucciso dalla negligenza di tanti. Conosco le responsabilità dei Carabinieri e dei medici dell’ospedale Pertini. Appena reinserito in una struttura carceraria, è stato trattato da “drogato di merda”. Mi sono spesso domandato come sarebbe finita se fosse stato figlio di un architetto o di un avvocato”.
Ha incontrato la famiglia di Cucchi?
“L’anno scorso al Memorial di boxe. Non ho avuto il coraggio di avvicinarmi alla fragilità dei genitori. A sua sorella Ilaria sì. Mi disse subito: hai gli stessi occhi. Non il colore. Intendeva: lo stesso animo suo negli occhi. Poi durante le riprese non ci siamo sentiti. Quando è arrivato il momento di farle vedere il film, ero ansioso. Non so come hai fatto - furono le sue parole - ma sei uguale a lui. Sul set lavorava come attrezzista uno degli amici più intimi di Stefano. Non lo sapeva nessuno, solo io, e in scena guardavo lui per capire cosa gli stessi restituendo. Quando abbiamo girato la scena del processo, non ce l’ha fatta, se n’è andato. Sappiamo che si muore senza che nessuno ci avverta. Ma l’idea di morire ingiustamente, credendo di essere stato abbandonato anche dalla propria famiglia che invece era dietro la porta e non riusciva a entrare, è la cosa peggiore che io possa immaginare. Volevo che il film restituisse questa angoscia. La famiglia Cucchi ha capito tutto solo all’obitorio, alzando il lenzuolo dalla faccia di Stefano. Credevano di aver lasciato loro figlio nelle mani sicure dello Stato. Se Stefano si fosse reso conto del pericolo, avrebbe messo da parte l’orgoglio. Non è riuscito a urlare: per favore portatemi via di qua”.
Secondo lei perché?
“Perché nella borgata è diffusa la mentalità per cui non puoi essere tutelato dallo Stato. Non senti di meritarne la protezione. Sei abituato a credere che le guardie siano nemici. Dipende dall'ignoranza e dalle storie che ti tramandano. Sono innamorato delle borgate. Non sono stato un ragazzo attivo in politica, non andavo alle manifestazioni, una parte della mia famiglia è cresciuta in zone di periferia. Mia madre dice che c’ho la calamita per i matti, anche ora che vivo alla Garbatella, e da ragazzino poteva essere più pericoloso. Alla stazione Trastevere ci andavo apposta per vederli, i matti. Per vederli che si urlavano contro, e volevano una sigaretta, e io non ce l’avevo, e me volevano mena’. Ma non mi spaventava, ero curioso di conoscere i margini del mondo”.
E come sono?
“Posti dove mi sento a mio agio. C’erano un sacco di attori bravissimi a cui far interpretare Stefano, forse hanno scelto me perché quella vita la conosco. Farei altri 100 film per raccontare i margini. Mi piacciono le storie di persone per le quali il libero arbitrio è ridotto a zero, perché la vita sceglie per te, perché quando esci dall'ospedale in cui ti hanno partorito vai a Tor Bella Monaca e non a Corso Francia. Mi piace perché ho la fortuna di poterle raccontare facendone parte ma senza esserne parte, perché sono considerato uno di loro senza essere mai finito con loro in questura. È gente che non ce l’ha un amico oncologo o dentista, ma possono averne bisogno. Provo a portarglieli io. Avere degli strumenti può salvarti la vita”.
A Stefano Cucchi sono mancati?
“È il contesto in cui si vive a offrire strumenti e cultura. La sua morte è arrivata dopo una marea di errori: valutazioni sbagliate, poca sensibilità, scaricabarile. Anche Stefano ne ha commessi sottovalutando il suo stato. Pensava: non mi faccio toccare, esco e grido quello che mi hanno fatto. Ma se non fosse stato picchiato, non sarebbe morto”.
Che Italia è questa del film?
“Non bella. Ma i film raccontano spaccati. Molte cose funzionano, molti italiani belli si impegnano e lottano per i diritti di persone che nemmeno conoscono. Penso a Mirko Frezza, un delinquente che ha scontato gli errori e messo la sua vita al servizio degli altri; il direttore di Villa Maraini, una comunità dove sono stati tanti amici miei; i ragazzi di Action Aid: che non portano da mangiare ma creano strumenti per procurarsi il cibo. Ecco, mentre io sono in casa a preparare un copione, c’è gente che fa questa roba qui, enorme e vera. Così come mi ha colpito il modo in cui la famiglia di Simoncelli ha affrontato la morte di Marco: educazione, silenzio, rispetto. Quanto poco ci vuole a essere gentili anziché puntare il dito e condannare. A quelli che su facebook scrivono che fra poco a Cucchi lo facciamo santo, bisognerebbe strappargli il passaporto, la tessera elettorale e la patente. Sono pericolosi. Mi fa paura che si possa pensare che un tossicodipendente meriti di morire dopo il suo arresto”.
I suoi genitori hanno visto il film?
“Lo vedranno a Venezia. Ne resteranno sconvolti. Se già facessi un film della Disney, loro si metterebbero a piangere. Sono coinvolti quanto me. Mi hanno insegnato a non giudicare. Quando andavo a pranzo da un amico a San Basilio, non mi hanno mai detto: amore, no. Ma sempre: fai le cose con la testa. Questa storia di Stefano Cucchi unita alla mia faccia sarà una tempesta per loro, lo so. Mia madre è stata carina. Ha detto: volevo andare fuori ma non ci vado più. E se poi ti danno il premio?”.
(Intervista uscita su il Venerdì il 10 agosto 2018)
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