giovedì 31 maggio 2018

Il '68 di Paolo Conte: 50 anni di Azzurro


ASTI. Il Maggio francese era 800 chilometri più a nord, la Statale e la Cattolica di Milano occupate a tre ore di treno. In mezzo al ‘68, senza scomporsi, Asti poteva abbandonarsi ai suoi piccoli e grandi drammi periferici. I trattori in strada dopo le grandinate, un colonnello trovato morto nel suo ufficio, due coniugi uccisi in una lite per ventimila lire. Il rione di San Pietro aveva vinto il Palio, la città si appassionava a un convegno sullo zucchero nel vino e Paolo Conte - l’avvocato Paolo Conte - tirava giù da qualche posto misterioso parole e musica di Azzurro. Chissà dove abitano le canzoni prima di nascere.

Il pianoforte su cui venne partorita Azzurro è sempre lì dov’era allora, al primo piano di una palazzina liberty nel centro della città, uno Steinway a coda appartenuto a papà Luigi, notaio, grande consumatore di dischi jazz. “Ora possono passare giorni senza che dia una spolverata ai tasti con le mani”. Quest’uomo di 81 anni le mostra sospese per aria, a galleggiare. Dita lunghe, ossute, sbilenche. “L’artrite. Prendere il si bemolle con il mignolo è una scommessa”. Esagera. A Paolo Conte piace mormorare cose così. “Ci sono tanti concerti sul canale 138, ci passo le giornate, mi impigrisco ad ascoltare”. Ha occhi chiari affilati come spade quando guarda dritto, solo che spesso li manda in giro da tutt’altra parte perché a parlar di sé ancora si vergogna, e casomai gli viene da raccontarsi come se non fosse il musicista italiano che ha scritto la canzone italiana più famosa al mondo insieme con Volare. Sono passati 50 anni, una ricorrenza che celebrerà con un concerto il 14 giugno a Roma, alle Terme di Caracalla, “ma senza arrangiamenti speciali, in versione sportiva, perché magari al pubblico gli va di cantare il ritornello”. Magari.

La Stampa dell’epoca scrisse che si trattava di "una marcetta originale. Farà certo gola non soltanto alle bande strapaesane che animano le fiere, ma anche ai juke-boxe disseminati al mare e ai monti nell'attesa delle grandi vacanze. Il motivo, semplice e orecchiabile, ha già affascinato i giovani". Era la sigla del programma Chissà chi lo sa. Paolo Conte aveva portato pochi mesi prima da autore al festival di Sanremo Deborah per Fausto Leali e No amore per Giusy Romeo, che poi sarebbe diventata Giuni Russo. Fra gli scontri a Valle Giulia raccontati da Pasolini e lo sciopero dei braccianti ad Avola, Azzurro entrò in classifica il 15 giugno al numero nove, il 7 settembre arrivò al numero uno e lì rimase fino al 5 ottobre, uscendo dalla Hit Parade solo a metà novembre, per far posto a Insieme a te non ci sto più, altro capolavoro di Paolo Conte. Poi sarebbero arrivati i portici, le nebbie, i neon e il Mocambo.

Che trentenne era lei nel ’68?
“Uno che aveva sempre vissuto in provincia. Giocavo a calcio, all’ala sinistra, anche se sono destro, perché lì non ci voleva stare nessuno e un posto libero si trovava sempre. Facevo già l'avvocato e se non ricordo male avevo pure fatto crescere già i baffi”.

Azzurro è sempre stata così come la conosciamo?
“In principio il treno dei desideri non esisteva. Avevo scritto: il treno di quest’estate / un’altra estate all’incontrario va. Più venivano fuori le parole, più sentivo che Celentano sarebbe stato l'interprete ideale. Ma era un’illusione: raggiungere Celentano non era facile allora e nemmeno adesso. Consegnai un nastrino Geloso registrato in casa, voce e pianoforte, a Oreste Corecà, tuttofare delle edizioni di Franz Leonardi. Un segugio fantastico. Fece la posta a Celentano sotto casa per due giorni e lo raggiunse in bagno mentre si radeva. Nel giro di pochi mesi il disco andò in porto”.

Cosa c’entrava con il ’68?
“Niente. Era una canzone che fiorì contronatura. L'attualità non mi ha mai interessato. L'attualità devi lasciarla passare. Quando ci hai capito qualcosa, allora la senti tornare sotto forma di ricordo, conscio o remoto. A quel punto se ne può parlare. Se dovevo scrivere di un’automobile, parlavo di un’Aprilia non di una 124. Perché c’è più odore nel passato. Il ‘68 per me era una notizia che veniva dall’esterno. Ero già vecchio per starci dentro. Apparteneva agli universitari. Io lavoravo. Alcuni di quei ragazzi trovavano un delitto che Celentano cantasse una marcia, a me piaceva andare controcorrente, e poi musicalmente il pezzo valeva”.

Questa distanza dall’impegno le è mai stata rimproverata?
“Spesso. Ma non dai militanti. È stata soprattutto la stampa a rimproverarmi Azzurro. La canzone d’autore era considerata un fatto letterario. Io invece ho sempre difeso il principio per cui viene prima la musica. È la musica che fa la pagina, dopo viene la parola. Un metodo che in tanti non hanno capito. Mi chiedevano: e il messaggio? Io mi sono sempre sentito in imbarazzo a lanciare un messaggio. Cosa devo lanciare? Io racconto storie, favole, chiamateli bozzetti se volete tenerli più in basso. La canzone può essere realistica nel linguaggio ma appartiene a se stessa, al personaggio che ne è protagonista. Se ero più moderno di altri per meriti artistici, alla stampa non interessava. Ho dato fastidio a quelli che vedevano la canzone come letteratura e militanza, ma io sentivo di appartenere al filone della canzone tradizionale. Indipendentemente dalla mia fede politica”.

Ecco. Parliamone.
“Non so quanti sono venuti a chiedermi per chi voto. Hanno provato spesso a tirarmi dentro: chi sei, da dove vieni, cosa pensi. Io ho raccontato sempre e solo la mia passione per la musica, la poesia, la pittura. Una volta negli studi della Rca, sulla Tiburtina a Roma, si accese una discussione fra artisti e operai, ancora tutti infervorati per il maggio francese. Quando mi ritrovai nel cortile del bar a fumare una sigaretta con Riccardo Del Turco, gli domandai: ma tu cosa hai fatto nel ‘68? Lui allargò le braccia e rispose: io ho fatto Luglio. Io avevo fatto Azzurro. La musica era la cosa che mi interessava di più. Non ho mai messo in pubblico le mie idee, e quelle dei miei personaggi non sono le mie. Ho difeso così la mia libertà. La politica mi ha lasciato in pace. Nessuno mi ha mai tirato per la giacca. Ho lavorato come i registi nei film, non come gli scrittori che si infilano nei loro libri”.

Niente di autobiografico nemmeno in Azzurro?
“Il ricordo di un prete dell’oratorio con cui mi trovai a chiacchierare per aver sbagliato l’orario di una partita di calcio. Arrivai e non c’era nessuno. Solo lui. Il punto è che tante canzoni di quel periodo focoso appartengono al diario intimo dei cantautori. Questa cosa mi ha sempre messo in imbarazzo. Non ne sarei capace. Anche leggere autobiografie mi infastidisce”.

Cosa legge?
“Bah, io passo furbescamente per uno colto, che ha letto tanto, ma di libri ne ho sfogliati pochi. Ci siete cascati. Da anni, poi, leggo solo gialli scandinavi. Hanno il pregio di entrare da un orecchio e uscire dall'altro. Così li posso dimenticare in fretta, senza che mi lascino niente. Forse sarà una mia ricerca della leggerezza, mi interessa solo sapere come va a finire. Però mi accorgo che qualche volta butto là una frase, e tutti a credere che ci sia un riferimento nascosto”.

Il verbo fischiare per l’aeroplano sopra i tetti?
“Me lo sono inventato da solo, mica ho letto chissà cosa. Qualche merito artistico ce l’avrò anch’io”.

Il baobab. Dove l’ha preso?
“Quando registrammo il pezzo, Celentano se ne stava in un angolo da solo e ripeteva: tra l'oleander e il babalù. Un po’ di cose esotiche mi hanno sempre attirato. Qualche volta sono stato accostato a Salgari. Ho lasciato fare anche se non mi faceva impazzire. Il suo personaggio che mi piace di più è la tigre. Mi hanno timbrato con questa etichetta dell’esotismo, in realtà per me vale di più questo senso dell'altrove assai novecentesco”.

Che è come dire: “cerco l’Africa in giardino”?
“Il concetto è quello. La descrizione di una scena quotidiana spostata per qualche pudore su un teatro fantastico, all’estero, in Messico, non so dove. Una forma di autodifesa che appartiene a molti autori. Tutto il mio esotismo è ricostruito. Viaggiando appresso alle canzoni, non ho avuto molto tempo per guardare il mondo. Conosco meglio Parigi. Se ti fermi un mese all’Olympia, la città finisci per annusarla. Ma sono un pessimo turista. Il mio viaggio più speciale è stato in Norvegia. Mi mandarono a rappresentare l’Italia a un quiz radiofonico sul jazz. Si ascoltava un brano in cuffia e bisognava riconoscere titolo, esecutore, data. Arrivai terzo”.

Meglio cercare l’estate tutto l’anno? Il pomeriggio di Azzurro evoca il meriggiare pallido e assorto di Montale, la sua poesia preferita.
“L’estate mi piace molto. Mi piace nuotare. È il periodo in cui annullo tutte le piogge di cui ho scritto, e sia chiaro che ne ho scritto sempre con piacere. Ma quando si può stare al caldo preferisco. In fondo siamo mediterranei. Celentano mi disse che ero stato il primo a usare la parola pomeriggio nel testo di una canzone”.

Probabilmente anche risorse. Come si è difeso dal successo di Azzurro? E come si fa a non consumare le canzoni?
Azzurro non mi ha schiacciato perché ho continuato a comporre in modo vario, con altri gusti, altre identità. Non sono rimasto schiavo di Azzurro, che all’inizio peraltro nasceva come facciata B di Una carezza in un pugno. È stato il pubblico a ribaltare le gerarchie perché si poteva cantare nelle gite aziendali. Tanti pezzi, con il tempo, perdono il loro profumo iniziale. Certe volte bisogna staccarsi da una propria creatura, restare un po’ di tempo senza ascoltarla per riassaporare il nettare d’origine. Ho fatto così pure con Azzurro. Un artista ha sensazioni segrete sulle sue canzoni. Ce ne sono alcune che gli appartengono più di altre. Io mi rivedo ne Gli impermeabili musicalmente, in Genova per noi per la parte letteraria”.

Il ‘68 di Celentano fu uguale al suo?
“In vita nostra ci saremo visti tre o quattro volte al massimo. Vive relegato vicino a Lecco in un bel posto di laghi, solitario, siamo due capricorno. Una volta andai a cena da lui mentre era in preda a una vocazione spirituale. Avevo perso mio padre da poco e mi ero giocato gli ultimi residui di conforto nella fede. Adriano cercava di convincermi e pronunciò la famosa frase secondo cui il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai. Lo avevo conosciuto nel ‘67 per La coppia più bella del mondo.Un autore teme sempre di veder tradito il suo pezzo da un interprete. È una sofferenza. Ma della sua interpretazione mi fidavo. Andai però a controllare più volte il lavoro dell’arrangiatore: che il re settima non diventasse un mi bemolle minore. Cercavo per Azzurro un suono antico. Mettemmo tre mandolini a dargli un sapore fatale. La voce di Celentano era una garanzia perché non è da cantante. Mi spiego. La lingua italiana viene spesso cantata in modo impostato. Ci sono pezzi degli anni ‘30 meravigliosi. Ma l’amore no è per me la canzone italiana più bella di sempre. Vorrei averla scritta io. Come tante canzoni di Giovanni D’Anzi che hanno dentro il veleno di quegli anni. Eppure spesso si ascoltano con fastidio, sembrano interpretate da tenori mancati, con un’enfasi figlia un po’ del melodramma e un po’ del fascismo. Celentano era l’ideale”.

Le piace la versione di Mina?
“Quella in cui canta con Adriano?”.

Quella con i cori da stadio dell’Hockey Lugano. Il disco era Sì, Buana (1986).
“Non la ricordo, non so se l’ho mai sentita. Ma con l’arrangiamento dei cori da stadio forse siamo in un territorio ardito”.

Se dovesse scrivere una Azzurro per l’Italia di oggi, che colore sceglierebbe?
(Sosta. Una lunga sosta. Una lunghissima sosta)
“Maròn. Il colore dell’Italia di oggi è maròn. Non ha nulla di epico. Ma scriva grigiastro che è meglio. Facciamo antracite”.

(Il Venerdì, 24 maggio 2018)

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