Manuale catalano. Come si rimane un anno intero con la stessa voglia del primo giorno, come si conserva la stessa fame pur avendo la pancia piena. Come si ritorna a essere il Barcellona del Triplete, sei anni dopo il primo, sei anni dopo la squadra che fece una rivoluzione nel gioco e nel lessico del calcio, latinizzando quello che s'era fin lì chiamato 'Treble', all'inglese, e imponendo la sua egemonia culturale con il guardiolismo, il falso nueve e il tiki taka. È divertente, mentre Xavi solleva la Coppa, ripensare a cosa si diceva di questa squadra un anno fa. Ciclo finito. Era uscita ai quarti, aveva perso campionato e Coppa del re. E adesso, a piacere, li chiamiamo invincibili, cannibali, insaziabili.
Il Triplete ha fatto il giro largo ed è tornato a casa. La Catalogna. Non si può avere tutto nella vita, ma certe volte sì, se dentro la maglia della tua squadra hai un mucchio di campioni, più qualche fuoriclasse. In fondo così doveva finire, visto che in italiano una parola per quell'impresa neppure ce l'abbiamo. Come il mais ai tempi di Colombo, l'abbiamo importata, anno 2010, ce la impose Mourinho, insieme all'idea che 'zero tituli' fosse una formula divertente con cui denigrare gli altri. Se cinquant'anni fa dietro l'Inter di Herrera tutto il mondo prese a dire Catenaccio, adesso arrendiamoci e teniamoci Triplete. Oltre a scrivere la storia, i vincitori impongono la loro lingua.
Il Triplete non è uno solo. C'è quello nobile: campionato, coppa nazionale, Champions. C'è quello indigeno: scudetto, Coppa, Supercoppa (o Coppa di Lega per chi ce l'ha). Esiste pure il Tripletino: campionato, coppa europea minore e un'altra coppa scelta. E qui entriamo nel campo dell'ossessione lessicale. Se non hai un Triplete da esporre, sembra che tu non sia nessuno. All'idea del Triplete ci stiamo quasi abituando, nel calcio siamo arrivati a otto, i primi quattro distribuiti in 42 anni (Celtic '67, Ajax '72, Psv '88, United '99) e gli altri quattro negli ultimi sei (Barcellona 2009, Inter 2010, Bayern 2013 e il bis del Barcellona). È diventato più facile esagerare, a Barcellona di più: avevano appena vinto anche quello della pallamano e dell'hockey su pista.
Curioso che un anno da Invincibili sia stato chiuso dentro uno stadio che si chiama Olimpico, nato cioè al servizio del concetto che 'l'importante è partecipare'. Ma di uomini e donne a cui non viene meno la fame sono pieni pure i Giochi. Quando a Monaco nel '72 vinse sette ori in sette gare, Mark Spitz disse di sentirsi come «un fabbricante di automobili che ha costruito la macchina perfetta». Nel ciclismo erano gli anni di Merckx, non a caso il Cannibale, e dell'Ignis di Giovanni Borghi, squadra che aveva avuto Poblet, Nencini e Baldini. 'De Coubertin? Non lo conosco', Borghi aveva risolto la questione così. Michael Phelps nel 2008 a Pechino portò a otto il record di ori e spiegò: «Solo chi fa il sogno più grande riesce a trasformare tutto in possibile». Prima del Barça il Triplete del calcio si chiamava Treble, da quando a festeggiarlo furono gli scozzesi, i ragazzoni del Celtic, 1967. Jock Stein, il loro allenatore, dopo il 2-1 all'Inter poggiò le spalle alla parete dello spogliatoio e disse: «Una grande stagione, certo, ma l'anno prossimo che faccio?». La risposta ce l'ha quarantotto anni dopo il miliardario Gabriele Volpi, patron dell'italianissimo Recco di pallanuoto, che quasi indifferente a un anno senza avversari ha lanciato il progetto del «Triplete dei Triplete», vale a dire tre anni di fila di scorpacciate, inconsapevole di ciò che predicava a suo tempo Jack Dempsey, campione mondiale dei pesi massimi a inizio Novecento. «La voglia di vincere è roba da perdenti».
(la Repubblica, 7 giugno 2015)
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