BERLINO . Un'impresa rimane per sempre, ma quelle di oggi durano un attimo. Un record porta nella storia, eppure a guardarlo mentre accade rischia di apparire ordinario. Quanto è successo a Berlino racconta che l'età contemporanea dello sport ha imposto il format della vittoria seriale e l'ha digerito come un'abitudine. Il Barcellona di Luis Enrique si è adeguato alla nuova tendenza. Viene infatti da chiedersi come sia possibile che passino 52 anni, dal 1956 al 2008, per vedere quattro Triplete, e solo sei stagioni fra 2009 e 2015 per contarne altrettanti. L'alta frequenza dell'impresa epocale non è un fenomeno che riguarda solo il calcio. Il Nuovo Millennio sta trasformando il nostro concetto di gloria. Il valore dell'unicità è sostituito dal principio dell'accumulo. Ogni impresa ne esige un'altra. Ogni vittoria singola pare monca. La Formula Uno dovette aspettare 36 anni per trovare un altro pilota in grado di vincere almeno quattro Mondiali come Fangio, ci riuscì Prost, era il ‘93. Ne sono invece bastati dodici, dopo il Duemila, per veder raggiunto lo stesso traguardo da due campioni, Schumacher nel 2001 (poi arrivato a sette nel 2004), Vettel nel 2013. Come non bastasse, ora incombe Hamilton. Non è diventata più facile la via del trionfo, è solo diventata più battuta. I soldi sono un buon motivo. L'eccezionalità arriva più spesso perché viene sollecitata e premiata. Nei contratti sono una norma i bonus, moltiplicatori di guadagni. Il marketing pretende l'assoluto, qualcosa che profumi di storia: per nove anni nessuno tenta il record dell'ora, negli ultimi 10 mesi lo hanno battuto in cinque.
Nel tennis questo profumo viene dal Grande Slam. Non è un affare semplice, neppure per un campione. Manca dal ‘69. Intanto si coltiva quello che gli anglosassoni chiamano Grand Slam Career: la collezione privata dei grandi tornei anche se non nello stesso anno. Proprio come per il Triplete del Barça, i primi tre a farcela si concentrano nell'arco di 27 anni (fra il ‘35 e il ‘62); mentre negli ultimi 6 anni ci sono già riusciti Federer, Nadal e ieri c'è andato vicino Djokovic, piegato dall'ossessione della moderna idea di eroe. Le stagioni si programmano, gli obiettivi si scelgono, l'inconsapevolezza è bandita. Certi campioni antichi erano come Frida Kahlo: «Non sapevo d'essere una surrealista finché in Messico non venne Breton a dirmelo». Prendiamo Mark Spitz. Vinse sette ori ai Giochi di Monaco con una motivazione personale: voleva dimostrare a suo padre di non essere un fallito. Quando Phelps vola a Pechino, ottavo anno del nuovo Millennio, ha invece la spinta di una borsa da un milione di dollari della Speedo per arrivare a otto e battere il record. Ci riuscì toccando la piastra insieme a Cavic, forse prima, forse dopo: il risultato venne stabilito dalla Omega, che era proprio un suo sponsor.
Con un solo successo sei quasi uno dei tanti. Il format della vittoria seriale ha espulso dal nostro orizzonte le figure dei magnifici perdenti, i Poulidor, o gli ultimi, i Malabrocca, quelli che si davano battaglia al Giro per la maglia nera. La lezione del Barça cannibale alla fine è questa. Oggi per essere un perdente ti basta vincere uno scudetto.
(la Repubblica, 8 giugno 2015)
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