Sessantatre anni fa, il 27 agosto 1950, Cesare Pavese si tolse la vita nella camera di un albergo a Torino. Un gigante della letteratura che tra la sue pagine seminò passaggi dedicati al calcio, o forse sarebbe più corretto dire alle partite di pallone. Al gioco. Ai suoi odori, alle sue atmosfere, all’incredibile gioia che sa dare. Eccole:
Ho sentito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione; tutta la notte per tre notti sulla piazza è andato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. (La luna e i falò)
Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, l’albergo dell’Angelo si rifece tranquillo e quando, nel brusìo delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. (La luna e i falò)
I commessi parlavano eccitati della partita di calcio del giorno dopo. Partita internazionale, Italia-Germania. Masin non s’era più occupato del gioco da tre mesi e, a sentir nominare un portiere che non conosceva, gli andò il sangue ancor più alla testa. (Ciau Masino)
I ragazzi vociavano e giocavano al calcio. Nel cielo chiaro – quel mattino aveva smesso di piovere – vidi nuvole rosee, ventose. Il freddo, il baccano, la repentina libertà del cielo, mi gonfiarono il cuore. (Prima che il gallo canti)
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