Il tifo, si dice. Come se fosse uno. Indistinguibile. Come se fosse una polpa, uguale ovunque, mentre niente più di una bandiera d' una squadra di calcio racconta la coerenza verso un' identità. Un conto è tifare per chi oscilla tra successo e tracollo, chi vive di crepacuore «sulle montagne russe della grandezza», un altro stare dalla parte di chi ritiene che «vincere sia l'unica cosa che conta». Essere interista significa convivere con l'idea che «anche la sconfitta di oggi può divenire un trampolino di lancio verso la vittoria di domani», essere juventini prevede l'esclusione dal proprio orizzonte di ogni altro titolo che non sia il dio risultato, «tutte queste scemenze qua, a noi non interessano niente». Finezze e sfumature di ogni partigianeria sono raccontate in quattro manualetti su Inter, Juve, Napoli e Roma mandati in libreria da Fandango con dei titoli che sono altrettanti hashtag (la stringa con cui su Twitter sono contrassegnate le parole chiave). Più in là arriveranno quelli su Genoa, Lazio, Milan e Palermo.
Twitter-militanti sono gli autori. #Amala, l'interismo secondo Nicola Mirenzi, è forse il più riuscito. Celebra Ronaldo come Quaresma. «Abbiamo perso così tanto che alla fine abbiamo pensato che l'insuccesso fosse la nostra seconda pelle, il nostro destino». Santifica Mourinho come l'uomo che ha liberato un popolo dalla «degenerazione dell'interismo che è lo sconfittismo».
Irriverenza e scherno sono invece le colonne del romanismo, raccontato da Johnny Palomba e Zeropregi in #Daje. Quel romanismo che riorganizza il proprio giudizio sulla squadra e sui propri giocatori a ogni calcio d'angolo, sorvolando con disinvoltura sull'abisso che passa tra l'immortalità e il ridicolo. Una fazione che «sa scherzare sulle proprie disgrazie», quella che più brontola e sbuffa.
Boris Sollazzo canta «la diversità divenuta orgoglio» dei napoletani con il suo #chevisietepersi, citazione di un celebre striscione esposto all'ingresso del cimitero dopo il primo scudetto: «Amo il Napoli perché si può essere dei vincenti anche senza vincere niente».
Mentre #sulcampo di Massimo Zampini, sin dal titolo, sceglie per raccontare lo juventinismo un approccio aggressivo. È quasi un pamphlet, un dialogo con tutti gli immaginari «interlocutori molesti», una ripetuta excusatio di fronte ai «processi mediatici e giudiziari» e al sentimento di essere considerati il «simbolo del male». Con il sospetto di averne un terribile bisogno.
(Repubblica, 30 agosto 2013)
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