venerdì 24 agosto 2012

Toledo Suite


Yorick si fa capire. Sa come chiedere di uscire al suo padrone. Esige un po’ di fresco. Enzo Moscato in casa ha un cane che si chiama come il teschio di Amleto, coerenza di un uomo che vive immerso nel teatro. Lavoro, terapia, dedizione. Dice che il teatro è sempre uno scontro, che in fondo nasce così, così deve, mescolando lingue e registri. E’ lo stesso che fare poesia. E’ lo stesso che fare canzone. “Perché si può rinunciare a tutto, in ogni epoca, tranne che alla voce”. Messaggio da tempo di crisi. La voce è carezza e pugnale, strattona e accompagna, ferisce e guarisce, così la adopera Moscato, uno che per intendersi ha riversato il To Be or Not To Be dentro la tessitura di Anema e Core. Spaesando la sua arte si svela. Ora va a darne testimonianza al Festival della mente di Sarzana, nona edizione dedicata ai processi creativi, al via da venerdì prossimo 31 agosto. Il programma della direttrice Giulia Cogoli ha cucito insieme incontri, spettacoli, lezioni e concerti intorno al tema della diffusione della conoscenza come valore irrinunciabile.

Moscato sarà a Sarzana, in Piazza d’armi, Fortezza Firmafede, la sera dopo l’inaugurazione con il suo ultimo lavoro. Titolo di due parole. La prima è Toledo, i Quartieri spagnoli di Napoli, vale a dire se stesso, le sue origini, dov'è nato e dov'è tornato a vivere da qualche anno, la città nella città, serrata e custodita nell'anima. La seconda è Suite, per accostamento e contrapposizione. Suite è il mondo. E’ la parola cui Moscato affida il disvelamento della sua poetica. L’ossimoro che si fa scena. “Intanto mi piacciono le parole brevi. E poi una suite è un inseguirsi di stili diversi, non omologhi. È il non stop, come piace a me. Io non porto mai in palcoscenico fratture tra un concetto e la sua rappresentazione, tra la parola e la musica. L’arte è per me fluidità”. Lo spettacolo sta per diventare un disco, il quarto dell’artista napoletano, 64 anni, un lavoro di rielaborazione musicale curato da Pasquale Scialò che si muove tra Viviani, Trovaioli e Gil; e sopra un innesto, un lavoro di promiscuità testuale – rieccolo lo scontro – tra Brecht, Weill e Marguerite Duras. Moscato è un sarto di frammenti. Canta in francese e in tedesco, in latino e in greco, poi mescola il suo impasto al napoletano. “Nello spettacolo c’è anche un pezzo in giapponese. Alcune delle lingue che canto non le conosco. Mi affascinano nella loro sonorità. Io la penso come Viviani. Una bella canzone ha la stessa forza espressiva della prosa”. Sebbene lui non nasca cantante. “Ma quando ho recitato nei film di Mario Martone e Pappi Corsicato, chissà perché, finivo sempre per cantare. Mi sono detto che era un segno. Adesso sono più ortodosso come cantante, più scostumato come attore”.

A Sarzana, dove il Festival insisterà sul concetto che non c’è futuro senza diffusione di cultura, Moscato porterà la sua storia di “viscere e cervello, mi sento un’endiadi, la mia spontaneità artistica consiste nel fondere il sublime con il fecale”. Ha un’infanzia trascorsa nei vicoli, una lingua d’origine da cui ha scelto di non emanciparsi neppure dopo la laurea in filosofia. “Il teatro mi viene dal basso, poi con la mente e con gli studi ho riletto la mia eredità, scoprendo nei testi di Artaud una risposta concettuale alle intuizioni che avevo dentro”. Ha fatto l’insegnante, prima di rinunciare alla cattedra per scegliersi un percorso distante. “Preferisco la condizione di alunno, sono uno che deve capire. Dei miei ex studenti, qualcuno è diventato attore, ci siamo ritrovati. Quando insegnavo, ne ricordo tanti che mi proteggevano. Intuivano il mio disagio”. Chi lo ha incrociato negli studi, lo descrive come un professore timido. “Perché lo sono, il teatro è dei timidi. E’ di grande aiuto psicologico. Fa miracoli, fisici e psichici. Oltre l’apparire scenico, non ho sicurezze. Fuori mi sottraggo, mi danno dello scontroso. Sono io. Gli artisti hanno paura della vita. Ho mollato l’insegnamento anche perché il posto fisso mi incatenava, preferisco vivere la paura, dev'essere il motivo per cui non sono andato via da Napoli”. Questa Napoli. Sempre lì, al centro della scena, con enfasi, depressa e barocca. “Città che stimola, che ti fa vivere da precario. Forse è il suo aspetto che mi piace di più. Ha rinunciato per sempre al concetto di garanzia perpetua. Io sono incantato dalla sua bellezza, panoramica e urbanistica. Poi, certo, sconta il suo atteggiamento rinunciatario nei confronti della storia”. La famosa “sacca storica” che tanto piaceva a Pasolini, i napoletani che scelgono di restare come sono e di lasciarsi morire. “Erano parole dettate dall'amore che provava per la città, credo che quel vecchio giudizio non sia più vero. Dalla storia Napoli è anche stata un po’ respinta. Una parte del lavoro l’abbiamo fatta noi napoletani, il resto l’hanno fatto gli altri. Ci sono stati momenti alti di cui vorrei si avesse coscienza: la rivoluzione del 1799, le Quattro giornate, anche il 1993 di Bassolino sindaco. E’ andata com'è andata, ma non me la sento di dire che non ci fu una svolta, semmai non è stata definitiva”.

Napoli è ancora in ogni parola che Moscato porta sulla scena. “Inorridisco quando mi arrivano certi copioni mal scritti. Leggo un napoletano tronco, senza desinenze, un napoletanese, la lingua dei telefonini. Autori che ignorano come le vocali centrali e finali si debbano scrivere anche quando non si pronunciano. Diamine, questa è la lingua di Eduardo, di Petito, di Scarpetta. Poi, si capisce che una lingua cambia. Ma cambia per uso, per scelta consapevole, non per ignoranza del canone. E’ una lingua che sa tenere sveglio un senso mitico. Un’idea di eternità. Confesso un mio peccato: io detesto chi è di Napoli e vuole parlare di Oslo”.

(Il Venerdì, 17 agosto 2012)

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