Ci ha lavorato un pool composto da due storici dell’arte, una storica di archivi e tre gemmologi. Una investigazione sulle pietre, la loro provenienza, documenti, mandati di pagamento, persino sulle ore di lavorazione impiegate all’epoca. Lo Sherlock Holmes dei diamanti si chiama Ciro Paolillo, docente di gemmologia a La Sapienza di Roma. "Ma la cifra complessiva del valore dei gioielli di San Gennaro non la faccio. Non in un momento così delicato per la città". Ventunomila oggetti. "Pensavo di trovarmi di fronte un mucchio di collanine, manine ed ex-voto". E invece. Paolillo-Holmes e i suoi Watson sono entrati nel caveau. "Un caldo infernale". Camici bianchi, guanti da chirurgo, un laboratorio trasferito dentro la banca. Microscopi, raggi ultravioletti, lenti e luci. E le guardie armate addosso, mentre loro scoprivano smeraldi dell’epoca Maya, tagliati in Colombia, portati a Napoli dai conquistadores spagnoli attraverso il porto di Genova. "Gli altri tesori? Briciole di polvere rispetto a un elefante". Ma soprattutto non ce n’è uno che racconti la Storia come quello di Gennaro, il più noto fra i 52 santi patroni di Napoli: un’accumulazione di doni giunti nei secoli da re, regine, imperatori e papi.
Un tempo i gioielli adornavano il busto del santo voluto dagli Angiò durante le processioni. Poi sono spariti. Nascosti in Vaticano durante l’ultima guerra e ritrasferiti a Napoli nel 1947 da tale Giuseppe Navarra, sommozzatore, detto il re di Poggioreale, descritto da Giuseppe Marotta come un mezzo guappo, il primo possessore di un porto d’armi a Napoli dopo la liberazione. Ci hanno fatto un film con la sceneggiatura di John Fante. Riportò indietro tutto. Il calice in oro, diamanti e rubini commissionato da Ferdinando di Borbone. La pisside in brillanti, zaffiri e smeraldi. L’ostensorio in argento e pietre preziose donato da Maria Teresa d’Austria. E soprattutto le meraviglie: la mitra e la collana. La prima in argento dorato, 3.328 diamanti, 198 smeraldi e 168 rubini, un prodigio realizzato nel ‘700 da un orafo trentenne, Matteo Treglia. Racconta Paolillo: "I Medici hanno esaltato Cellini, ma questo artigiano semisconosciuto non era da meno. Completò un lavoro da 20 mila ducati. Per farsi due conti, mezzo secolo prima la peste costava alla città 650 ducati a settimana". Traduzione: "E’ un pezzo da 7 milioni di euro". Il calice in oro zecchino donato da papa Pio IX ai napoletani per ringraziarli dell’ospitalità ricevuta durante i moti mazziniani, a metà Ottocento ne valeva 3.000. Cifra con cui ci si comprava la Ferrari di tutte le carrozze. "Ma il valore storico del dono come si stima?". Vuoi mettere la collana. Tredici maglie d’oro e pietre preziose, a cui dal Settecento si aggiunsero croci e fermagli in brillanti, rubini, zaffiri e crisoliti donati da tutte le case regnanti d’Europa. "La singola croce regalata da Bonaparte è di smeraldo senza inclusioni. Di quelli che da Christie’s si battono per un milione di euro a carato. E in questo caso siamo a 26 carati". Cifre ipotetiche, dice la gemmologia investigativa. "Un tesoro si valuta davvero solo nel momento in cui si vende".
Solo che qui non c’è nessuno che venda. Il tesoro appartiene alla città e ne è custode la Deputazione della cappella del tesoro, una delle istituzioni più singolari d’Italia. Quando si dice Deputazione, la prima cosa da fare è tenere i pensieri lontano da funzioni religiose, chiese e cardinali. E’ un’istituzione laica. Nasce perché nel 1527 Napoli si trova schiacciata fra la peste e la guerra dei francesi a Carlo V. E prim’ancora che la mano di Dio, il popolo invoca l’aiuto di San Gennaro. Con la promessa di edificargli una cappella più grande all’interno del duomo. Faccia ‘ngialluta esaudisce, il voto va sciolto. Ci pensano gli Eletti della città. Uomini nobili e del popolo. Dal 1601 a oggi, la Deputazione garantisce l’inviolabilità delle ampolle col sangue del santo e l’amministrazione del tesoro. Roba seria. Le nomine erano controfirmate dai re, ora passano da Quirinale e Viminale. La presidenza è del sindaco, il vice si chiama don Riccardo Carafa duca d’Andria, da cinquant’anni fra gli eletti, da uno al vertice.
Ai guardiani di San Gennaro, il tesoro l’hanno sfilato sotto gli occhi solo Nino Manfredi e la sua scalcagnata banda del film di Dino Risi. Volevano comprare il calciatore Eusebio. "Dio mio, quel film", si sente orrore nella voce di Carafa. "Non ne sapevamo niente della sua realizzazione. Lo diciamo?". Diciamolo. "Non ci fece piacere. Poteva essere un incentivo al furto". Nessuno ci ha mai provato, neppure ora che cinque delle meraviglie sono esposte al museo della cappella. "Un rubino è quasi a portata di mano. In realtà il vero antifurto sono i napoletani: il tesoro è di tutti", racconta Paolo Jorio, direttore del museo, che si prepara alla grande esposizione di aprile-maggio 2011. Tutte insieme le dieci meraviglie. "Il vero problema di sicurezza si porrà quando porteremo la mostra fuori". In progetto un allestimento a Roma, Castel Sant’Angelo. Intanto il lavoro dei gemmologi è documentato in un elegante volume (Le dieci meraviglie del tesoro di San Gennaro, Libreria dello Stato) curato dallo stesso Jorio e da Franco Recanatesi.
L’ultimo dono è arrivato pochi mesi fa. Un paio di occhiali. Una montatura semplice semplice. Un uomo ha bussato alla porta della cappella e ha raccontato che sua figlia, con una seria malattia alla vista, aveva sognato San Gennaro. La mattina dopo era guarita. "Così almeno racconta lui", alza le mani Carafa. Ma nel nome di San Gennaro, l’abate ha sorriso all’uomo venuto dal nord Italia, l’ha ringraziato e ha trovato un posto ai piccoli occhiali in acetato di cellulosa. Accanto ai calici dei re. Roba che a Buckingham Palace se la sognano.
(Il Venerdì, 3 dicembre 2010)
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