Una volta qui era tutta campagna. Oddio, tutta tutta proprio no. C’erano molti palloni che finivano in porta allo stadio e altri lanciati nei canestri, c’erano le stanze in cui dormivano gli atleti delle Olimpiadi, le gare di sollevamento pesi al palazzetto di piazza Apollodoro. Se viale Ungheria si chiama così, è per i formidabili pallanuotisti del Sessanta, non per le opere di Miklós Jancsó. Senza offesa. I pesi veri da sollevare, nel quartiere, sono arrivati dopo. Quando la fiaccola dei Giochi s’è spenta, l’area ha dovuto combattere il degrado. Lo sport l’aveva popolata, i film l’hanno risvegliata.
Vent’anni di Auditorium e diciassette di festival hanno disegnato un’altra mappa. Ora è il Palatiziano a galleggiare sul mare mosso di chiusure e riaperture, una volta sì e una volta no. Il cinema ha occupato la scena che fu dei cinque cerchi, dove le strade parlano di Pierre De Coubertin e Nedo Nadi, dove le sculture in bronzo di Amleto Cataldi raffigurano calcio e corsa, lotta e boxe. Ciak, si cambia. Se ci fosse Tornatore, direbbe che queste strade adesso sono il Nuovo Cinema Flaminio. Dieci anni fa, all’Auditorium è arrivato Woody Allen per girare delle scene di To Rome With Love. Non possono avergli detto che lo svincolo di corso Francia, verso viale maresciallo Pilsudski, nell’immaginario collettivo rimarrà il tratto di strada dove si prostituisce Jolanda, la sorella di Sordi in Lo Scopone scientifico, né che per anni è rimasta vandalizzata e abbandonata la cabina telefonica da cui Fabio chiama amici e conoscenti per il suo spettacolo d’avanguardia in Io sono un autarchico. Nel quartiere Flaminio, Dario Argento girò L’uccello dalle piume di cristallo negli Anni Settanta, Nanni Moretti è venuto di recente per Mia Madre, Pietro Germi prima di tutti portò il set di La città si difende.
Eppure, perfino nei paraggi della zona in cui Roma ha messo in piedi la sua Croisette, il cinema è un bene da difendere a fatica. Quando Giovanni Gronchi dichiarò aperte le Olimpiadi, la sera del 25 agosto 1960, al Capitol davano Il Barone con Jean Gabin, mentre il Roxy voleva vincere facile, in cartellone manteneva La Dolce Vita. Erano due delle 41 sale di prima visione aperte in città, altre 63 affollavano il circuito di seconda, 51 offrivano film al terzo giro di vita. Nella pagina degli spettacoli, L’Unità pubblicava anche il programma di 31 sale parrocchiali e di 28 arene estive. A 700 metri dall’Auditorium, il Capitol oggi non esiste più. È stato travolto dal ciclone che investì gli affari dei Cecchi Gori. La sala è diventata prima un club con musica dal vivo e adesso una discoteca, di fronte a una caserma dismessa, in mezzo a un paio di tavole calde e alle petizioni di protesta dei residenti nei paraggi. “Mi pare che l’ultimo film sia stato Ovosodo di Virzì. Era una delle poche sale con il tetto mobile. Si apriva per permettere di fumare”, racconta Fabrizio Tosi. Il Bar Xenia, di fianco, è di proprietà della sua famiglia. La crisi della sala aveva coinvolto pure loro.
Adesso invece stanno aperti 24 ore su 24, così servono l’alcol di notte a quelli che entrano, il caffè e il cornetto a quelli che escono all’alba. Resiste l’Arena Tiziano, sala parrocchiale dell’Associazione culturale Santa Croce, dieci minuti a piedi dal red carpet. Domani danno I figli degli altri. Per provare a salvare il Roxy, due km più su, verso i Parioli, l’ultima petizione è stata firmata nel dicembre scorso, in un quartiere che nel frattempo ha visto cadere l’Archimede e l’Embassy. L’ultimo colpo l’ha assestato la pandemia, decine di cinema trasformati in supermercati, bingo, ristoranti, parcheggi. Eravamo appena usciti dal lockdown, nel maggio 2020, quando la politica annunciava l’arrivo del primo drive-in, in un’area che le indiscrezioni individuavano in piazzale Ankara, dove al martedì ci fanno il mercatino. Ai drive-in siamo invece andati a farci i tamponi. Ieri, al giorno #1 della festa, all’Auditorium è tornato il pubblico. Nuovo Cinema Flaminio, dai, ricominciamo.
[uscito su Repubblica Roma del 14 ottobre 2022]
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