Puoi rifare il western ma non toccare Pinocchio. Puoi accettare la sfida di essere tra le poche donne al mondo a confrontarsi con il genere cinematografico della virilità, ma i confronti con i padri sono un’altra cosa. Più impegnativa. Più profonda. Su un coloratissimo divano nel cuore del quartiere San Lorenzo, Francesca Comencini ne è divertita. Sgombra il campo dagli imbarazzi. “Starei delle ore a parlare di Pinocchio, ma non ne girerei mai una versione mia. Non mi azzardo. Spero che qualcuno osi ancora, altri lo hanno già fatto. Non io. Proprio non posso”. C’è un filo tra l’eroe di legno che papà Luigi portò cinquant’anni fa nelle case degli italiani con Manfredi-Geppetti e il suo Django, l’anti-eroe della serie prodotta per Sky e CANAL+ da Cattleya e Atlantique Productions, in anteprima alla festa di Roma. “Pinocchio, come il western - dice Francesca Comencini - non finirà mai”.
Una volta Paolo Virzì ha raccontato di aver saputo in treno da Matteo Garrone che stava per girare Pinocchio, mentre lui stesso aveva una riunione in settimana su un progetto simile. Chiamò la segretaria e annullò. Perché tutti vogliono fare un Pinocchio?
“Perché è un contenitore smisurato che rappresenta la condizione umana, in modo universale. Ognuno ne ha uno suo. Quale sia il mio preferito è ovvio. È un enorme archetipo, il mondo di qualunque essere umano si sia sentito storto da bambino, con la sensazione di sentirsi bruciare qualcosa. Come ogni classico, parla di oggi. In questo senso, Pinocchio è un western”.
Se ne vedevano molti in casa Comencini?
“Onestamente, non credo che a papà piacessero. Le favole, quelle sì. Il western era una passione soprattutto mia, da adolescente ribelle. Erano gli anni in cui si andava al cinema per vedere i film di Sergio Leone, “Piccolo grande uomo” o “Pat Garrett e Billy the Kid”. Incarnavano lo spirito del tempo meglio di quei film di denuncia che andavano dritti. Il western è il genere-manifesto dell’idea di chi non si sottomette”.
Giocava anche ai cow-boy?
“Giocavo alle sabbie mobili: temibili e affascinanti. All’epoca se ne vedevano anche in Sandokan. Ciascuno di noi ha una forma della fantasia che suscita una possibilità del racconto".
Tra Pinocchio e Sandokan, in che modo era il western a raccontare la Roma degli anni di piombo?
“Sia i western americani sia quelli italiani travestivano il clima di terrore che c’era intorno a noi, lo avvolgevano dentro una favola nera e raccontavano gli scontri politici del tempo, senza farlo in maniera frontale. Il western racconta la condizione di chi non può sentirsi mai al sicuro, la città dove il pericolo può nascere ovunque e in qualunque momento”.
Che cosa pensa dell’etichetta spaghetti western? È offensiva o spiritosa?
“A me non piace. Preferisco western all’italiana. Ma è divertente, accettiamola per quel che è, la definizione di film ironici, auto-ironici, improbabili. Eppure dei capolavori. Una serie di registi italiani si sono Impossessati di un genere americano e anche per motivi di budget lo hanno rifondato, in una specie di delirio artistico Gli americani stessi si sono fatti poi influenzare da questo gruppo di matti, penso a Sam Peckinpah e al “Mucchio selvaggio”, il film che in assoluto credo mi abbia formata”.
Ci sono città più western di altre?
“Un western ha bisogno di paesaggi vasti. Foreste, montagne, deserto. Noi abbiamo trovato in Transilvania questa specie di ventre scavato nella roccia rossa, dove costruire la New Babylon del film, ispirandoci a “I compari” di Altman, ma su un terreno scosceso, eliminando così l’orizzonte piatto tipico del western. Ogni tanto sul set tornava l’aggettivo wrong, in rumeno si dice stramb, come strambo da noi”.
Massimo Troisi diceva che i registi dei western danno i cavalli bianchi ai buoni e i neri ai cattivi. Lei?
“Qui il cavallo bianco ce l’ha The Lady, l’antagonista. Nel mio “Django” il cattivo è una cattiva. È un doppio capovolgimento del canone. Per costruire un personaggio femminile molto forte. Anche per “Gomorra” mi sono confrontata con un progetto aspro. Raccontare gli angoli bui e scomodi, ciò che ci spaventa, mi attira. Mi piace farlo da donna, dimostrare che non ci sono campi di gioco e generi da cui siamo escluse”.
Esiste ancora la necessità di affermarlo?
“Totalmente. Viviamo una fase in cui è una grande fortuna essere una regista donna. Non perché sia più facile, ma perché buona parte di ciò che è stato raccontato, non ha ancora un punto di vista femminile. E adesso si stanno aprendo delle possibilità".
[uscita su Repubblica Roma il 18 ottobre 2022]
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