Successe a Sunderland, a Doncaster, a Wolverhampton, a Londra per una partita contro l'Arsenal nel vecchio stadio di Highbury e pure davanti al mare di Ipswich. Ogni volta che la Lazio volava in Inghilterra, Pino Wilson si trovava a fissare l'orizzonte e a fare i conti con una tentazione, scappare, salire su un treno, esplorare. Desiderava vedere finalmente Darlington, almeno una volta, su al nord, dove tra carbone e acciaio erano diventati famosi per la lana e per la prima ferrovia al mondo. Voleva risalire alle radici, scoprire la sua culla, era nato là e non c'era tornato mai. Era di quella Lazio il volto della saldezza, portava la fascia da capitano, ma aveva pure lui le sue malinconie. Suo padre Denis, inglese, aveva fatto il militare a Napoli, la città dove si era innamorato di Rachele. Dentro uno spogliatoio che aveva assegnato a ciascuno un ruolo, Wilson era il dominus d'ogni contesto, era l'altra faccia di Chinaglia, la sua spalla forte, almeno fino alla crisi post scudetto che portò Giorgione in America e la squadra dei miracoli a smembrarsi. Luigi Martini aveva la parte dell'oppositore, Sergio Petrelli quella dell'irregolare che aveva portato le pistole dentro lo spogliatoio, Renzo Garlaschelli il viveur, Mario Frustalupi il filosofo socialista, Felice Pulici un buono agostiniano, Franco Nanni il timido, Vincenzo D'Amico la recluta, Giancarlo Oddi l'ingenuo, Mario Facco una specie di fool shakespeariano. Wilson era invece per tutti il Baronetto, per altri il Padrino. Proiettava questa posa di stabilità e di fermezza pure sul campo. Quando Gianni Brera se ne avvide, di lui scrisse: «La difesa ha scoperto in Wilson un regista sapiente, non che sia gran cosa l'anglo-napoletano, in fatto di acrobazia: è anche miope e sulle palle spioventi da lontano non si sente a suo agio, come è ovvio: però nel tackle è tempestivo e qualche volta maligno. Nei disimpegni tocca di piatto destro con ricercata eleganza».