Quante cose è stato, tutte insieme, nell'unico posto al mondo che l'ha reso martire e sovrano, dove si vive toccando il cielo e ci si converte in un secondo al pessimismo. La città che prima mise un suo capello sotto una teca nella vetrina di un bar e poi rinchiuse direttamente lui sotto una cappa morbosa di venerazione. La città che lo ha costretto a vivere di notte e che in periferia gli aveva intitolato una Rotonda. La città che lo ha trattato come una divinità, mai come un divo, venerandolo più dei suoi cinquantadue santi patroni e il loro sangue sciolto. La città che quando giurava diceva ha da muri' mammà, iniziò a giurare su Diego Maradona, detto qualche volta O Nennillo, come il bambino Gesù, oppure O Masto, il maestro, per i più anziani la parola che indica il datore di lavoro, dunque il guadagno, il benessere, la riconoscenza. Era Diego, semplicemente. Diego solo con il nome, alla maniera di Eduardo, anzi come Eduardo diceva che meritassero di essere chiamati i re e i parrucchieri. È stato anche Dieco, con la c, anzi Thiechíto. È stato il nome di battesimo per 527 bambini nati in città, provincia esclusa, in quei 7 anni irripetibili, 12 dei quali Diego Armando e uno per intero Diego Armando Maradona. Fa il pizzaiolo in un comune nei pressi del Vesuvio. Vengono ancora gli inviati dall'estero per parlare con lui.
Tutto quello che si trovava cinquant'anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c'è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c'è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970.
È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo.