sarrismo s. m. La concezione del gioco del calcio
propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri,
fondata sulla velocità e la propensione offensiva;
per estensione, l’interpretazione della personalità di Sarri
come espressione sanguigna dell’anima popolare
della città di Napoli e del suo tifo.
Quando un uomo si trasforma in un sostantivo, l’affare si complica. Se era successo per Blair, Renzi e Pippo Baudo, figurarsi per Sarri Maurizio, 59 anni, allenatore, che diventando un -ismo è entrato per decisione della Treccani nel vocabolario della lingua italiana, a indicare uno stile di gioco ma soprattutto “per estensione: espressione sanguigna dell’anima popolare della città di Napoli e del suo tifo”. Nel 2008 l’Istituto aveva accolto “granatismo” (“passione per il Torino”), nel 2012 “balotellata” (“gesto, comportamento, tipici di Balotelli”) e due anni fa “contismo”, da Antonio Conte (“sacrificio, concretezza e concentrazione”). Ma non era esistito un -ismo che fondesse il pallone alla sociologia. Se ne è preso la responsabilità Luigi Romani, linguista, coordinatore editoriale del vocabolario. Il suo Osservatorio documenta nuovi significati e parole. Quando la diffusione ne è certificata, il lemma è promosso. “È la frequenza d’uso”, spiega “a sancire l’ingresso del termine, non una commissione a un tavolo. Non tutte le parole si consolidano. Vanno e vengono. Ora per esempio “craxismo” è candidato a uscire. Resterà di interesse storico ma non è più nell’uso comune”.
La prima attestazione della parola si colloca in Toscana, Empoli, novembre 2015, quando Sarri era diventato l’allenatore del Napoli da 4 mesi. Fabrizio Corsi, il presidente che se lo era visto portar via, parlando della sua assenza disse a Sky che era dolorosa “perché qui si è creato una sorta di sarrismo”. Aveva inventato il contenitore. Il contenuto lo avrebbe messo Napoli, casualmente città di nascita dell’uomo-ideologia, dove il babbo Amerigo lavorava da gruista per la ditta che costruiva l’Italsider di Bagnoli. Qui Sarri si sarebbe manifestato in tutta la sua iconografia dopo aver lasciato il posto in banca: la tuta anziché la cravatta, le leggende sui 33 schemi, infine il tocco degno di un genio del marketing, dicendosi lettore di Bukowski. Il profilo perfetto dell’anti-sistema, finanche più estremo di Zeman, stesse sigarette e stesso 4-3-3. Un uomo carico di contraddizioni piovuto nella capitale dell’incoerenza. Allena con i droni e dice di leggere solo il Televideo. Ha uno staff che lavora sul dna ma si lamenta se gioca prima, dopo, se il pallone invernale non rotola bene.
Per diventare un sostantivo gli mancava una dimensione da aggiungere alla “squadra più sexy d’Europa” (l’Équipe). L’estetica ha mandato in crisi mediatica lo juventino Allegri, vincitore di tutto ma ogni tanto all’angolo per difendersi dall’accusa di pensare al risultato, fino a dover chiedere: cos’è il bel gioco? (Il colombiano Maturana avrebbe detto: “Il bel gioco è quando la gente se ne accorge”). Sarri s’è fatto simbolo del ribellismo napoletano, mettendo i piedi nelle orme lasciate da Maradona e prendendo la scia della comunicazione politica del sindaco de Magistris, uno contro il Pd, l’altro contro la Juve: oppositore, radicale, con lo slogan “fino al Palazzo, bastano 18 uomini per fare un colpo di Stato”. Era scritto allora che il sarrismo fiorisse qui, incrociando storia e antropologia del luogo.
Gli amministratori della pagina facebook “Sarrismo, Gioia e Rivoluzione” hanno designato “a nome del comitato centrale” il giornalista Sandro Ruotolo come ministro della propaganda. Con grafica sovietico-guevarista. “Sono sempre stato tifoso del Napoli” racconta “ma per 40 anni non me ne ero occupato. Stavolta sì, con ironia, destrutturando il bolscevismo, perché il sarrismo è un fenomeno di costume, in sintonia con lo spirito di una città che cambia”. Trent’anni fa intorno a Maradona era sorto uno schieramento di intellettuali chiamato “Te Diegum”. Ruotolo eccepisce: “Quello era un giochetto dei ceti professionali di Posillipo e del Vomero. Il sarrismo è specchio della Napoli popolare dei Decumani. Sognavamo che si potesse vincere lo scudetto senza contaminarci, al contrario di quanto accadde con Ferlaino, che ingaggiò Allodi, uomo di Palazzo. Un po’ come adesso con Ancelotti, persona squisita ma dentro le logiche. Uno che non fa paura”.
Utopia, antagonismo e unicità. Ora bisogna ricordare che nella mitologia di Raffaele La Capria (L’Armonia perduta, Mondadori 1986), Napoli è luogo dove la Storia si è arenata, non si è evoluta. Per questo i napoletani, secondo la sua teoria, recitano la parte di se stessi, un cerimoniale, “un manierismo consolatorio e omologante: un’intera città si sentì Nazione, e continuò a fingersi luogo privilegiato e universale mentre in realtà si era rifugiata in un’indifferenza autoprotettiva”. Una città con il culto del passato e dell’autocontemplazione. Cosa c’entra con un allenatore di calcio? C’entra perché seguendo La Capria, la napoletanità è il gioco dell’apparire. Fa preferire il bello al vero. Un’ideologia autosufficiente. Quando provò a cambiare Napoli, il sindaco Bassolino pensò fosse opportuno un assessorato alla Normalità.
Nello Mascia, attore, 71 anni, è stato il Molosso al cinema per L’uomo in più di Sorrentino e a teatro l’allenatore laziale Maestrelli. Dice: “Il sarrismo ripudia il traguardo, per questo resta nei cuori. È certamente un riflesso della napoletanità. È una filosofia di vita, anche se vedo bene i limiti del basta ca ce sta ‘o sole. Ma Sarri si fa amare per le sue contraddizioni. Io lo chiamo sor Tuta, ricorda certi personaggi della commedia dell’arte o del Corriere dei piccoli. Autorevole e bofonchione. Burbero e amabile. Il simbolo di una rivoluzione incompiuta”. Come scritto da Stefano De Matteis in Napoli in scena (Donzelli, 2012), “a Napoli tutto è un po’ incompiuto, un po’ mancato. Nulla riesce a raggiungere il compimento”. Tu fai 91 punti e la Juve ne fa 95.
Era sarrista non solo l’utopia calcistica – i ritiri in montagna, la formazione uguale dall’1 all’11 – ma pure quella sociale, perché nella città delle ribellioni isolate introduceva il collettivismo, esibizioni da teatro eduardiano, nelle quali i solisti erano banditi, dove tutto doveva rispondere al copione. “Così non mi aiutate”, diceva De Filippo agli attori che improvvisavano. Il sarrismo uguale. Poteva perciò parlare alle élite o attaccare il carro dove voleva il popolo. Poteva essere Vico e Croce o mettere i panni di Masaniello. Ha finito per riportare Napoli dentro quella pasoliniana pretesa di preservare una comunità dall’omologazione, come i tuareg. Il sarrismo forse non sarebbe piaciuto a Gianni Brera, che fece in tempo a vedere la sua matrice, Sacchi, e non lo amò. Definiva i palleggiatori portoghesi di metà campo dei “masturbatores pilae”. Tutto torna. A metà anni 60, Brera era già un teorico del difensivismo e nemico della scuola giornalistica napoletana: Ghirelli, Barendson, Palumbo. La riteneva incline all’elogio di un calcio velleitario e gli pareva la radice di tutti i mali del Napoli. Ghirelli replicava che “si gioca per lo 0-0 come si vota Dc, realizzando una società fatta di furbizia, immobilismo, parassitismo, tenace conservazione dei privilegi” (Intervista sul Calcio Napoli, Laterza, 1978). C’era stato il calcio totale di Vinicio.
Il post-sarrismo ha diviso il tifo. Nostalgici non sono a “Il Napolista”, rivista online di analisi politico-calcistica. Massimiliano Gallo, che la dirige, dice: “È come se la città si fosse specchiata nel brutto anatroccolo, il genio della panchina che il sistema aveva trascurato perché poco presentabile. Sarri e il suo gioco hanno incarnato l’idea che i napoletani hanno della propria città: splendida eppure emarginata, comunque diversa e soprattutto antagonista. Il gioco è stato un elemento distintivo, una cartolina di Napoli. Una vittoria a prescindere, per dirla alla Totò. Così come Napoli è la città più bella del mondo. Sempre a prescindere. Sarri ha adulato Napoli e quello che amava definire il suo popolo, guidando il movimento contro De Laurentiis. Al contrario di Ancelotti che si è definito aziendalista. Un termine che a Napoli equivale a una parolaccia. Lui è considerato aristocrazia, upper class. E in questi casi, Napoli si mette sulla difensiva. Come a dire: voglio vedere se riesci a vincere pure qui”.
Il sacerdote Gennaro Matino confessò a Francesco Durante (Scuorno, Mondadori, 2008), dopo la crisi dei rifiuti, che “stiamo rimettendoci nella condizione di recuperare un orgoglio. L’avevamo perduto, ma se un giorno potessimo dire che valiamo, se riuscissimo a vincere, sarebbe una festa continua. E c’è forse un posto dove c’è più bisogno di festeggiare, dove c’è un desiderio più forte di vincere, considerato che qui non si vince mai?”. Il sarrismo prometteva orgoglio e quella festa. Resta da chiedersi cosa ci faccia ora a Londra, per giunta Chelsea, la zona chic di Gwyneth Paltrow. Resta da chiedersi cosa il sarrismo ortodosso sia disposto a perdere per evolvere, e poi in che cosa, ora che a Napoli è solo un ennesimo capitolo del passato da ricordare.
(Il Venerdì, 5 ottobre 2018)
Nessun commento:
Posta un commento