POI, quando d'amore non ce n'è più, rimane il rispetto. Per questo, davanti alla sua vecchia gente, Adem Ljajic piazza la palla nell'angolo basso e basse tiene pure le mani, va bene, è gol, ma non c'è niente da ridere, adesso lasciatemi stare. Firenze lo ha conosciuto bambino, gli ha visto prendere schiaffi e pugni da Delio Rossi — sganassoni educativi o aggressione violenta, si disse, secondo i punti di vista — e adesso lo riscopre uomo sereno, in pace con il suo passato. La vita fra ex può non essere facile, del resto ci si innamora insieme e ci si separa in modo impari. Luis Figo passò da Barcellona al Real e al primo Clàsico si trovò una testa di maiale lanciata in campo. Il belga Steven Defour, giusto domenica, ha sollevato lo sguardo verso la sua vecchia curva, scoprendo che allo Standard Liegi non hanno preso bene il suo passaggio all'Anderlecht: su uno striscione era ritratto con la testa mozzata.
Il gol dell'ex è un'arte ancora più sottile. Commuove se non è rivalsa né rimpianto, se galleggia sulla linea di mezzo. Vive di sfumature. Non c'è luogo che più di Firenze ne abbia esperienza. Quando Baggio tornò da juventino, sotto i fischi non se la sentì di tirare un rigore, le gambe tremavano, i ricordi di più, finché non gli lanciarono una sciarpa viola, lui la raccolse e la mise intorno al collo, precedendo così le solenni verità delle ragazze di Sex and the City: «Per dimenticare ci vuole almeno la metà del tempo che si è stati insieme ». Come Ljajic, era della Roma anche Batistuta quella volta che segnò al suo vecchio amore durato nove anni. La palla entrò in porta e lui fuori area, immobile, non sapeva cosa fare. Allora pianse, tornando per un momento parte del mondo viola. Scena che l'Olimpico riportò subito dentro una cornice più ordinaria al coro di "Batistuta ve saluta, Batistuta ve saluta".
Anche la primogenitura del gol senza esultanza viene attribuita a un romanista, Abel Balbo, 3 dicembre '95: fa 1-1 negli ultimi minuti alla sua Udinese e di essere felice non gli viene. Non festeggia il parmense Chiesa contro la Samp ('98), né il bolognese Signori con la Lazio (2000), figurarsi il laziale Simeone quando fa perdere lo scudetto all'Inter quel famoso 5 maggio 2002. Il calcio è sentimento, ci si trattiene anche di fronte alle proprie radici: come lo juventino Conte a Lecce, Cassano in gol da sampdoriano a Bari e il tedesco Podolski in lacrime nel segnare alla Polonia (Europei 2008). Con l'abitudine c'è chi s'è fatto prendere la mano. Ora che si cambia maglia ogni due anni, rischiamo di finire le domeniche con un cumulo di gol senza più gioia. Il massimo in un Napoli-Udinese di tre anni fa, gol friulani di Denis e Inler. Il primo non esulta perché a Napoli c'era stato, il secondo perché stava per andarci. Del resto, si sa, sul punto i napoletani sono permalosi. Per aver dato alla Juve lo scudetto del '75 con un gol nello scontro diretto, José Altafini s'è beccato per il resto della vita il soprannome Core ‘Ngrato. I milanesi, più laicamente, hanno sopportato che Ronaldo segnasse in un derby contro la "sua" Inter portando le mani alle orecchie davanti ai vecchi tifosi, oppure Ibrahimovic a braccia aperte sotto la curva un tempo sua. Non correva questo rischio Christian Vieri, che esultava quasi mai, assai prima di Balotelli. Un giorno spiegò che il calcio era già troppo dispendioso per sprecare energie correndo con la maglietta alzata e inscenando trenini: «La butto dentro e poi finalmente mi riposo». E comunque tu, carissima ex, prendila così, non possiamo farne un dramma.
(la Repubblica, 27 gennaio 2015)
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