La prima Olimpiade di casa De Crescenzo si chiuse davanti ad uno schermo buio. «Si ruppe il televisore nel giorno delle finali di nuoto. Aspettavamo la gara di Dennerlein, e non la vedemmo». Roma '60, il piccolo Paolo aveva dieci anni. Il settembre dopo, era un bimbo della leva nuoto alla Canottieri Napoli. Papà Armando portò lui ed anche il fratellino Massimo. Così Dennerlein ce l'avevano sotto gli occhi. La prossima Olimpiade di Paolo De Crescenzo è quella buona, e il televisore non c'entra. Ad Atene ci va da cittì della Nazionale di pallanuoto. «Non sono mai stato ai Giochi. Neppure da spettatore. Be' , sono il massimo. Rappresentano il riconoscimento più alto dello sport come fatica, educazione e cultura; il riconoscimento di chi solitamente non si sente rappresentato. O forse dovrei dire sovra-rappresentato, come accade ai tanti personaggi finti di cui ci nutriamo. Non è invidia: solo che non è giusto scoprire ogni 4 anni gente come un Maenza, un Burruni, Maspes o Gaiardoni. Sono curioso di vedere cos'è un'Olimpiade. Ho l'esperienza di tre Universiadi, a Torino, Mosca e Kobe. Ma non è la stessa cosa» .
Ad agosto, De Crescenzo sarà un debuttante di 54 anni. «Ormai m'ero quasi rassegnato a non vederne una. Almeno non dal vivo e da protagonista. Alla Nazionale non pensavo più, sentivo che il mio treno era già passato. In fondo, se Campagna non avesse accettato le offerte della Grecia, credo che questa panchina sarebbe ancora sua, e forse io non ci sarei arrivato mai. Me l'hanno data quando non me l'aspettavo più».
Dicembre 2002, all'improvviso. La Grecia soffia il commissario tecnico all'Italia della pallanuoto; l'Italia deve cercarsene uno a 20 mesi dai Giochi, senza la possibilità di scommesse né azzardi, e va prendersi il più affidabile di tutti in casa del Posillipo, mandando di traverso il campionato napoletano, senza finale scudetto dopo 11 anni. Il presidente del circolo, Umberto Ritondale, si scotta, ma comprende. Strappa l'ultimo anno e mezzo di contratto già firmato con De Crescenzo e lascia andare l'uomo delle vittorie, che aveva sentito il dovere di presentare le dimissioni (respinte) perché avvertiva meno fiducia intorno dopo un secondo posto in campionato e un terzo in Coppa Campioni, roba di pochi mesi prima. Come poteva dire di no a De Crescenzo, che fin lì avvertiva l'esclusione dall'azzurro - parole sue - come una «sconfitta professionale»? In Nazionale si porta una storia accertata da vincente ed una fama da psicologo tutt'altro che gonfiata. Quand'è ancora un giovanotto, con una laurea in Economia e Commercio ottenuta discutendo una tesi sulla storia del lavoro negli anni del fascismo, vola un'estate in America per degli stage in psicoterapia di gruppo. Dicono che sia il segreto dei 9 scudetti e delle 2 Coppe dei Campioni vinte da allenatore del Posillipo. Di certo c'è che i giocatori stranieri arrivati a Napoli da tutto il mondo, rimangono sorpresi. Specialmente quelli dell' Europa dell'Est, abituati ai loro inflessibili sergenti. Qui invece scoprono cosa sono le regole senza gli ordini, un concetto di cui s'appropriano al momento d'andar via. Uno dei posillipini d'una volta, l'ex portiere serbo Aleksandar Sostar, oggi parla alla De Crescenzo finanche nelle riunioni del governo di Belgrado. E' l'incaricato allo sport.
«Credo nella parola. A certi obiettivi ci arrivi lo stesso, rispettando i ruoli, il linguaggio e la comunicazione. So essere più duro con un ragionamento che alzando la voce. Parto dall'idea che certe regole siano comode pure all'atleta, in nome d'un obiettivo a cui immagino tenga almeno quanto me. Insomma, non faccio la ronda nelle camere dopo le dieci di sera. Se uno vuole scappare di notte dal ritiro, significa che non ha capito il rispetto dovuto a chi dal ritiro non si muoverà mai». Rispetto. Senza sconti. Questa è una storia del '98, ultima giornata del campionato di pallanuoto, ormai inutile per un Posillipo già qualificato ai playoff, ma decisiva per il piccolo Bogliasco, a cui serve vincere per salvarsi. Chi allena il Bogliasco porta lo stesso cognome di chi allena il Posillipo. E' il De Crescenzo più piccolo, Massimo, che manda avanti una carriera da artista parallela allo sport. I suoi quadri sono finiti in esposizione al museo di Barcellona. Malignano solo quelli che non li conoscono abbastanza; s'è mai visto uno che manda suo fratello in serie B? Eccolo qua: Paolo. «Non ci fu alcuna tentazione. Non ci pensammo su neppure in attimo. Facemmo l'unica cosa possibile». Vince il Posillipo, il Bogliasco retrocede. «Avrei offeso mio fratello e non sarebbe stato giusto per le altre squadre in ballo. I loro sacrifici valgono quanto quelli nostri». Vallo a spiegare al Milan che perde a Reggio Calabria. «Il calcio è un'altra cosa. Totalmente. Ha molte manifestazioni infelici, eppure lo sport rimane un mondo fantastico. Dove lo trovi un lavoro in cui si possa parlare di unità, impegno e rispetto reciproco?».
Anche il calcio ha provato a prendersi De Crescenzo. Erano gli anni dell'Utopia Velasco, un'idea venuta prima alla Lazio e poi all'Inter. Nel Napoli del '99 c'è qualcuno che si lascia contagiare dal fascino di quella novità. Viene la fantasia di importare a Soccavo la stessa formula, col mago della pallanuoto. Vogliono mettere De Crescenzo accanto a Novellino, con un ruolo nuovo, motivatore del gruppo, un'evoluzione della figura del team manager. Solo che i giornali vengono a saperlo troppo presto, e non c'è nulla che possa indisporre Ferlaino più di una fuga di notizie. Salta tutto. «All'epoca avevo deciso di lasciare la pallanuoto. Ero ferito da certe situazioni. Mi sentivo a un punto limite. Ci fu quell'occasione, poi è sfumata. Non ci ho più pensato, sono sincero, ma è stato un bene aver proseguito in piscina. Se oggi sono qui, lo devo al sostegno che ebbi in quei giorni dai ragazzi e dall'intero ambiente». Aveva già lasciato un'altra volta, neppure quarantenne, nell'88. «Per la smania di conoscere altro, però mi accorsi che non avevo la possibilità di lavorare senza smettere di essere me stesso. Il bello della pallanuoto è che non m'impone maschere. Io sono questo, e tutti lo sanno. Altrove avrei dovuto metterne, e per me conta la passione. Se non c'è, mi spengo». Passione per la politica. «I diritti civili, la pace, l'eguaglianza». Passione per il cinema. «Specialmente i classici. Intendo Bergman e Fellini». Passione per l'aria aperta. «Il mare, ma anche il mio giardino». E tanta curiosità. Tanta voglia di capire chi gli sta di fronte. «Il lavoro d'allenatore ha fatto di me un osservatore privilegiato dei giovani. Ho lavorato con adolescenti che oggi hanno quasi 40 anni; in Nazionale ho ragazzi tra i venti e i trenta; mio figlio Francesco ne ha compiuti 15 da poco. Bene, giuro che non finirò mai fra quelli che dicono "ai miei tempi". Io vedo ragazzi maturi, emancipati, cresciuti con valori solidi in un mondo più difficile del mio. Forse hanno sogni meno avventurosi, perché padroneggiano una tecnologia che gli può portare tutto in casa in ogni istante, ma hanno la voglia urgente di un mondo migliore, la stessa che avvertivamo noi diciottenni negli anni Sessanta. Non sono cambiati. Si cercano, si scontrano, si innamorano. Certo, poi hanno gli sms, Internet e l'e-mail. E che c'è di male? Così l'insegnano anche a me». Se uno debutta a 54 anni, non può aver smesso d'imparare.
(Repubblica Napoli, 20 luglio 2004)
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