Battuto anche l'Espanyol, dopo aver eliminato il Milan in Champions, l'Atlético Madrid può starsene buono buono a vedere cosa accadrà domenica prossima nel Clásico fra Real e Barcellona, e magari approfittarne. Ma intanto qualcosa di grosso è già successo. Anche grazie alle meravigliose campagne promozionali dell'agenzia Señora Rushmore, l'Atleti ha dato di sé in questi anni un'immagine speciale, quella di un mondo in cui l'identità è al centro di ogni cosa, dove la passione unisce e va oltre le ideologie politiche, dove il tifo è un vizio più duro da sconfiggere del fumo e del poker, un mondo in cui si può essere eternamente grandi con la fede che qualcosa si vincerà, anche senza vincere mai, o comunque non quanto il Real.
Poi è arrivato Diego Simeone, la cui faccia compare su sciarpe e bandiere.
L'icona del fútbol popolare che si ribella ai Galacticos e ai culé. Uno che con i colchoneros ha giocato, che quel mondo conosce bene, ma che ora sta provando a ribaltare. Dopo la vittoria sul Milan di martedì sera, Simeone in conferenza stampa ha dato una risposta illuminante. Poiché non si era ascoltato al Vicente Calderón il classico coro "hemos venido a emborracharnos, el risultado nos da igual" (siamo venuti a ubriacarci, il risulrato non ci importa), gli è stato chiesto se poteva dirsi compiuta una metamorfosi nella mentalità collettiva. Diciamo pure una mutazione antropologica del tifoso Atleti. "Io non so se il coro non sia stato cantato, non ci ho fatto caso, ma se i tifosi non lo cantano è meglio", è stata la sua risposta.
Non vuole più, Simeone, una afición che si accontenti di essere eternamente grande per ciò che è, per la sua smisurata passione che l'ha portata a resistere nella città del Real. Ora Simeone vuole un pubblico che pretenda la vittoria. E noi, da quaggiù, a sperare che il mondo Atleti resista, che non diventi banale come tutti gli altri, che vinca, certo, che cominci a farlo con continuità, ma restando se stesso. Restando colchoneros, materassai, scoprirsi migliori sarà più bello.
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