martedì 9 ottobre 2012
Il calcio d'Armenia
Era sabato a Erevan. I turchi arrivarono a torso nudo con la mezzaluna bianca, la bandiera nemica, ed erano migliaia. Non entravano in Armenia da decenni, eppure quella sera lo fecero senza visto e senza biglietto per lo stadio. Ingresso gratis, erano ospiti, ospiti per davvero. Altrimenti non la puoi chiamare la partita della pace. Coi tifosi da Istanbul viaggiò il presidente della repubblica, Abdullah Gül. S'andò a sedere in tribuna accanto a Sarksyan: loro che tenevano le frontiere e le ambasciate chiuse, che non s'erano parlati mai, vicini per una partita di calcio. Armenia-Turchia, qualificazioni per i mondiali del 2010, la prima volta in cui i due Paesi si guardarono negli occhi, un secolo dopo le uccisioni di massa. Un milione e mezzo di morti armeni sotto l'impero ottomano fra 1915 e 1917, l'annientamento di un'etnia, Ankara che ne ammette 300mila e nega il resto, nega il genocidio, anzi quella parola nei documenti non vuole scriverla e non vuole nemmeno sentirla pronunciare. Però quel sabato si parlano, si stringono la mano, alla fine si scambiano pure le maglie.
Succede allo stadio Hrazdan, dove venerdì sera arriverà l'Italia, dove il calcio è una cosa più grande di un pallone che gira. Il calcio d'Armenia è dazebao, stato d'animo, voce del popolo. Prima che un ponte di pace verso i turchi, fu la scintilla per ribellarsi ai sovietici. Gli armeni avevano una squadra nel campionato dell'Urss, si chiamava Ararat, come il monte sacro oltre lo stadio, dove si arenò Noè con la sua arca, laggiù, dopo la fine del mondo. Vinse un solo titolo, nel 1973, ma univa una nazione invisibile. L'anno dopo nei quarti di finale di Coppa dei Campioni fece tremare Beckenbauer, Gerd Müller e il Bayern Monaco, 1-0 a Erevan, 0-2 in Germania, il punto più alto degli armeni in Europa. Per Levon Abramian, antropologo e vignettista, «in un paese comunista la squadra di calcio era la sola comunità alla quale potevi scegliere di appartenere». Sosteneva che la rivoluzione sarebbe partita da uno stadio. Quando gli armeni vinsero lo scudetto dell' Urss, le automobili fecero baldoria di notte per Erevan dopo il coprifuoco, e nessuno protestò. «I vecchi uscirono con le loro fisarmoniche a suonare sui balconi le canzoni proibite», racconta Simon Kuper in "Calcio e potere" (Isbn ed., 2008).
Una gioia che fu il seme di un sentimento prima nazionalista e dopo indipendentista. Hayer, hayer, armeni, armeni, e poi tre battimani. Era un coro da stadio, divenne un coro contro il Cremlino. Dicono che fu il regime a ordinare la costruzione dello stadio Hrazdan da 75mila posti, perché nel piccolo Republican da 15mila si sentivano amplificati gli insulti contro il compagno Breznev. L'Armenia che s'è ripresa una storia e un popolo, un inno e una bandiera, ora vorrebbe prendersi il calcio per ciò che è per tanti. Un gioco. Il ct Vardan Minasyan può dedicarsi a un'idea finalmente banale, battere la grande Italia, 4 volte campione del mondo, vice campione d' Europa. «Perché non potremmo?». Andarono vicinissimi a un'impresa nel ' 99, contro la Francia di Zidane, quando non erano ancora quelli che nel frattempo sono diventati. La spaventarono, rimasero in vantaggio dal 7' al 45' , fino al pareggio su rigore di Youri Djorkaeff, proprio lui, uno dei figli della diaspora, i tanti armeni scappati dalla persecuzione, dagli altipiani e «dalla terra che mette le ali allo spirito», parole di Avetik Isahakian, poeta venerato come maestro. Sono 4 milioni nel mondo, 500mila solo in Francia, 8mila in Italia, i centri sono Milano, Padova, Trieste; una chiesa a Napoli è dedicata al loro san Gregorio, nella strada dei presepi. I Giochi Panarmeni riuniscono ogni tre anni i pronipoti della diaspora. Robert Attarian, vicepresidente del consiglio per la comunità armena di Roma, racconta che «dopo il crollo del muro e dell'Urss vennero a mancare i finanziamenti per lo sport». Perciò hanno dovuto cercarsi idoli ed eroi sotto altre bandiere. Come Andre Agassi, figlio di Mike Aghassian. È un popolo disperso che ha vinto 78 medaglie olimpiche per 13 Paesi, trenta d'oro, ma solo un trionfo festeggiato col proprio inno, nel '96 con Armen Nazaryan, uno dei più grandi di sempre nella lotta greco-romana. Una lapide al museo di Olimpia ricorda che re Varazdat d'Armenia vinse nel 360 ai Giochi antichi nei pugni a mani nude. Lottatori, pugili e sollevatori di pesi, sono arrivate così le 12 medaglie da quando l'Armenia è un Paese indipendente.
Prima, da sovietici, tanta gloria con i saltatori in lungo Ovanesyan e Emmiyan, la famiglia Azaryan nella ginnastica, lo schermidore Karagyan. Grant Shaginian, due ori e due argenti da ginnasta nel 1952 diceva: «Per essere convocati dall'Urss dobbiamo affrontare mille difficoltà, ma il 90% degli armeni torna a casa con una medaglia». Sei quello che senti d'essere. Ecco perché fu dura per Djorkaeff tirare il rigore contro l'Armenia quella sera. Youri è figlio di Jean detto "Tchouki", terza generazione di una famiglia di profughi. «Il calcio per me è stato riscatto sociale. Ho onorato mio padre diventando più bravo di lui. Sono nato in Francia, ma mi sento vicino al popolo dal quale discendo. La Francia mi ha permesso di diventare quello che sono, ma quando sentii l'inno armeno non potei non pensare a mio nonno, all'Olocausto, a tutta una comunità». Un anno dopo, Djorkaeff dovette rinunciare a una trasferta in Turchia. Minacce di morte. Emmanuel Petit, il suo amico mediano, disse: «Se Youri è responsabile di essere un uomo armeno, allora io mi vergogno di essere un uomo».
L'Armenia che aspetta l' Italia è al 64esimo posto della classifica Fifa, ha sfiorato la qualificazione agli ultimi Europei ed è composta da 7 ragazzi che giocano in Russia, 4 in Ucraina, uno in Iran, Bielorussia e Repubblica Ceca. Gli altri 8 nel torneo di casa (a 8 squadre). Mancheranno il brasiliano Marcos Pizzelli, naturalizzato nel 2008 («Penso perfino di essere più armeno che brasiliano») e Gevorg Ghazaryan, squalificato per aver tirato in Bulgaria il pallone contro un raccattapalle che perdeva tempo. Manca per la prima volta anche Sargis Hovsepyan, storico capitano di 39 anni, che ha lasciato a metà settembre dopo 131 partite con una frase alla Forrest Gump: «Sono stanco. Ho giocato abbastanza». Ha trasferito i segni del comando a Henrikh Mkhitaryan, 23 anni, già visto la settimana scorsa nello Shakhtar contro la Juve. Ha senso della posizione, fa poche moine in campo e fuori. È ala, mediano e trequartista. Corre, crea gioco, tira in porta. Sua madre Marina lavora in federcalcio, sua sorella Monika era l'interprete di Platini agli Europei in Ucraina. Conosce più lingue (cinque) che modelli (uno): «Mi ispiro a Zidane». Questa è la nuova Armenia che ha ricostruito con due milioni di dollari le 16 scuole sportive regionali dei tempi dei Soviet, con 9 milioni a Tsaghkadzor sono nati impianti sciistici, a Erevan un centro ciclistico. Il governo finanzia lo sport con 3 milioni di dollari l'anno. L'orgoglio non è cambiato. Mauro Guevgeozian è un attaccante uruguagio del Felix Montevideo. Origini chiare. «Per tutti nello spogliatoio sono l'armeno, ne vado fiero. Magari mi chiamasse un giorno la nazionale». La squadra che mette le ali allo spirito.
(la Repubblica, 8 ottobre 2012)
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