venerdì 25 novembre 2016

Che fine ha fatto il pugilato

Bisogna arrampicarsi fino a Santa Maria degli Angeli, quattro chilometri da Assisi, per vedere cos'è stato il pugilato e cosa non sarà mai più. A febbraio nascerà qui il suo museo, nell’ex area Montedison riqualificata. Una teca con la medaglia olimpica di Nino Benvenuti, una per la cintura mondiale di Gianfranco Rosi, un archivio di trentottomila fotografie. Ma la casa che deve celebrare i cent'anni di vita della federazione, ora rischia di diventare il simbolo di un corpo privo di respiro. Vuole essere memoria e assomiglia a un testamento. La quinta potenza di sempre sui ring dei Giochi - dietro Usa, Cuba, Gran Bretagna e Russia - ha vinto un solo oro dal 1992 e da Rio è tornata senza neanche una medaglia, come non succedeva da vent’anni, chiudendo il cerchio di questo disperato 2016 senza avere un campione mondiale tra i professionisti. Giovanni De Carolis, l’ultimo rimasto, la settimana scorsa ha lasciato il titolo dei medi in Germania, a Tyron Zeuge. La gloria è finita, andate in pace.

La boxe: così la chiamavano i nostri vecchi, quando era già dentro il quadrilatero degli sport del popolo, insieme con il calcio, il ciclismo e l’automobilismo. Il divo del fascismo Carnera, colosso d’argilla, e dopo di lui un’esplosione che fu l’altra faccia del boom dell’economia italiana con D’Agata, Loi, Mazzinghi e Benvenuti, tutti campioni del mondo, all’improvviso. Raccontava Mario Fossati che in Gazzetta il direttore Cougnet andava spiegando ai giovani inviati come gli sport antichi meritassero rispetto, “perché nella boxe e nel ciclismo, il sangue si vede subito”. Oggi non si vede il sangue e non si vede neppure il resto. Il pugilato vive di fatto una condizione di clandestinità mediatica. Da qualche mese è arrivata Fox Sports a offrire uno schermo. Ha firmato contratti con i migliori promoter d’Europa per proporre riunioni dai fusi orari meno ostili. Il match mondiale di De Carolis è stato visto da centomila persone. Marco Foroni, il direttore, dice che “la boxe ci piace, è in linea con il resto della nostra programmazione, stiamo già diventando un punto di riferimento per gli appassionati, ma per il bene di questo sport c’è bisogno che anche la federazione abbia un approccio diverso”.

La federazione ha invece abbracciato un’altra linea: più attenzione ai dilettanti e meno ai professionisti che in Italia sono scesi sotto i trecento su quasi ventimila tesserati. Diecimila circa sono amatori, uomini e donne che entrano in palestra e scaricano pugni sul sacco, perché non costa molto, per tenersi in forma, per ridurre l’ansia su consiglio degli psicologi. Alberto Brasca, 73 anni, il presidente, difende la sua scelta: “Se giudichiamo dai numeri, il pugilato può apparire uno sport in fortissima crescita: aumentano i tesserati e le società, le palestre sono piene. Il mondo del professionismo è diverso. I fasti d’una volta sono lontani. Se non è dentro la tv, uno sport non esiste”. Eppure dentro la tv un tempo c’era. Qualcosa lo ha espulso. “Sono stati commessi degli errori proponendo incontri e spettacoli scadenti”, ammette Brasca. Match organizzati in palestre di scuole e nelle hall di piccoli alberghi. Borse sempre meno allettanti. Una fioritura di sigle che aveva la necessità di dare un’etichetta a ogni incontro, con la conseguenza di svilirli tutti e gettarli nel caos. Le categorie di peso sono diventate diciassette, alcune delle quali separate da meno di un chilo e mezzo di differenza. Le sigle riconosciute sono quattro: dalla più antica Wba, alla Wbc, la Ibf, la Wbo. Le cinture sono di più. La Wba ha un campione, ma può avere contemporaneamente un super campione, un campione a interim e un campione Silver. Neppure il vecchio titolo europeo s’è sottratto alle clonazioni: ora è affiancato da un titolo Ue e da un titolo non-Ue. La crisi è una catena di cui non si scorge più l’anello di partenza, dove cause ed effetti si sono sovrapposti fino a confondersi. Mondiale è diventata la crisi, sui mercati tradizionali e quelli nuovi. Fa eccezione l’Inghilterra. Negli Usa la Hbo ha visto calare l’audience del 10% e ha ridotto il proprio impegno tagliando la copertura di una riunione su cinque. In Germania il promoter Sauerland ha firmato al ribasso nel passaggio da Ard a Sat 1, rinunciando a 600mila euro a match su un milione.

In Italia la decadenza è diventata crollo perché mancano i pugili. “Siamo quel paese”, dice ancora Brasca, “in cui tutti sono corsi a comprare una racchetta negli anni di Panatta e tutti sono andati sulla neve quando c’era Tomba. Speriamo che spunti un campione”. Le regioni guida sono quelle di sempre: Campania, Lazio, Puglia, Toscana, Lombardia. Ma per allargare la base, la federazione ha adottato ius soli e cittadinanza sportiva basata sulla residenza. I dilettanti in questa condizione sono poco meno di novecento e vengono da 84 paesi, in prevalenza Romania, Albania, Marocco. “Ne andiamo fieri perché è uno strumento di integrazione”. Mohammed Obbadi, marocchino arrivato in Toscana all’età di 14 anni, sta per combattere per un titolo Ue. Patrizio Oliva, il solo con Benvenuti ad aver vinto un mondiale dopo l’oro olimpico, dice che “servono i campioni ma pure i personaggi. È stato sempre così. De Carolis ha avuto una corona mondiale e in Italia non lo sapeva nessuno. Non si può dar torto alle tv che fuggono, se nessuno guarda un evento. Ci sono spese da coprire. Il calcio divora tutto. La seconda serata in televisione non esiste più ed era la nostra collocazione. Avevamo pugili in grado di divertire e rilanciare questo sport dopo i Giochi di Pechino: Valentino, Russo, Picardi. Invece si sono accontentati, senza osare. Hanno scelto di restare dilettanti, tesserati per i centri sportivi militari, senza fare attività lavorativa, con uno stipendio sicuro, un gettone azzurro e la pensione a vita”.

Oliva ha vissuto l’era in cui un suo match – gennaio 1987 – contro Gonzales, fece il 32% di share di sabato sera: 9 milioni e 900 mila spettatori sulla Rete2. L’ultimo grande personaggio italiano, Giovanni Parisi, ne faceva tre. Un’era in cui le grandi firme dei giornali seguivano il pugilato, perché era stata materia di Hemingway e Cortázar, Mailer e London, da noi Pasolini e Roversi, Luzi e Brera. L’ultimo evento mediatico è stato Mayweather-Pacquiao, a maggio scorso, definito il match del secolo coi suoi 16.800 spettatori. Qualcuno trovi allora una definizione per Zale-Pryor, 135mila persone nel Wisconsin, era il 1941. La bellezza del ring pare in vita solo fuori dal ring. Tony Bellew, mondiale dei mediomassimi, showman d’altri tempi, è stato scritturato da Sylvester Stallone per una parte nel suo Creed, ultimo capitolo della saga di Rocky: il primo ha compiuto quarant’anni proprio in questi giorni. Il cinema non smette d’innamorarsi di due che fanno a pugni. L’ultimo pugile di fantasia è stato il Billy Hope di Jake Gyllenhaal in Southpaw. De Niro ha avuto una parte in Hands of Stone sulla vita di Roberto Duràn, presentato all’ultimo festival di Cannes, mentre a Venezia è passato The Bleeder, storia di Chuck Weepner, l’uomo che nel ’75 rimase in piedi per 15 round davanti ad Ali ispirando Rocky Balboa, così siamo al punto di partenza. Il pugilato è vivo al cinema e nelle librerie. Negli ultimi due anni in Italia sono stati pubblicati 47 libri. Tullio Pironti, 79 anni, è stato sul ring e fa l’editore. Dice: “La boxe non ha perduto il suo fascino. È solo uno sport che vive di memoria. È il ritratto di un’epoca lontana e di una società sparita. Dava una risposta alla fame. È cambiata pure l’estetica. L’uomo forte è caduto in disgrazia, si può essere belli ed esili. Io dico che la boxe può rinascere grazie alle donne. L’entusiasmo vive là. Le ho viste, alle Olimpiadi. Eleganti, tecniche, stanno bene sulle gambe. Ecco, loro mi danno speranza”. La bellezza è nella semplicità. Come disse l’italo-australiano Rocky Mattioli a chi gli chiedeva quale fosse il segreto della sua boxe: “Si devono menare li cazzotti”.

(dal Venerdì del 18 novembre 2016)

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