lunedì 29 agosto 2005

Juliano, il capitano ai tempi del colera


Il ciuffo va a sinistra come sempre. Solo un po' più grigio. Verso destra andava con la sua finta preferita, il busto dritto e le voci della folla nelle orecchie, quelle che gli urlavano di passarla e di non tenerla sempre lui, 'sta palla. «Erano i compagni a darmela». Quando Antonio Juliano era Totonno. Il calcio ai tempi del colera.


Portava il numero otto dietro la schiena e tanto orgoglio dentro al petto. Quando ha tolto la maglia, gli è rimasto quello. «I princìpi non mi hanno reso felice». Ma se li portava dietro dovunque. Per orgoglio lasciò Napoli e andò al Bologna, lui che in passato aveva detto di no al Milan. Per lo stesso motivo ha stracciato un contratto da 500 milioni quando da mezzala lo inventarono manager, scoprendo che poteva guidare anche un'azienda, non solo un centrocampo pieno di mediani. Era puntiglio pure l'ultimo ritorno, nel '98, a quattordici anni di distanza dal precedente addio: metteva piede in un mondo che aveva finito di conoscere senza smettere d'amare. «Ho sbagliato le valutazioni sui giocatori da prendere. In serie A mi bastava scegliere quelli che mi sembravano più forti di me. Come Krol. In serie B no. Evidentemente non so valutare quelli meno bravi di me...».

Non tornerà più. Meglio fare il nonno a Posillipo con il bimbo della figlia, una psicologa che collabora ai progetti dell'Onu nell'America Latina. Un nonno senza pallone. «Non ho mai più giocato una partita. Neppure due palleggi sulla spiaggia. Mai». Il primo maschio fa l'architetto, l'altro è sfuggito alla marcatura e fa il calciatore. In serie C2 a Casale Monferrato. «Vado a vederlo quattro o cinque volte all'anno perché mia moglie insiste. Si sa come sono le mamme...».

Mamma Juliano, invece, tirava via Totonno dalla strada tutte le volte che aveva il pallone tra i piedi, a San Giovanni a Teduccio, dove la famiglia - origini irpine - si ferma fino ai suoi 16 anni. Vanno via di lì per aprire un negozio di alimentari a Poggioreale. Vanno via dopo un mare di quattrini spesi per riparare l'edicola votiva della Madonna dell'Arco. «Nel rione tutti sapevano che spesso la sfasciavo io. Io col mio pallone. Una volta rompevo le luci, una volta il vetro. Riparavano i miei. Anche quando non avrebbero dovuto. Era sempre colpa mia». San Giovanni, una scuola. «Lì ho capito cos'erano i sacrifici. Eravamo tre figli, io e due sorelle. Senza benessere, eppure mai che ci sia mancato qualcosa. Poi ho capito. Non ricordo mai d'aver visto mio padre e mia madre andare al cinema. La casa, il lavoro, i figli. A me pagavano pure la scuola privata...». Chi invece non pagava sempre, era il Napoli. «Siamo stati i primi a minacciare uno sciopero nel calcio. Un giorno decidemmo di non andare in campo. Lauro entrò nello spogliatoio per farci cambiare idea, ma ai miei compagni avevo fatto firmare poco prima un documento in cui ci dicevamo tutti d'accordo. Vincemmo noi. Pagarono. Giocammo e battemmo il Cagliari». I Lauro. «Ho visto gente baciare la mano a don Achille, e lo trovavo mostruoso. Non era il caso. A Gioacchino, una volta, ho fatto spendere 20 milioni in orologi. Me ne regalò uno in gran segreto, io andai a esibirlo nello spogliatoio: dovette regalarlo a tutti».

Sotto gli occhi coperti dal ciuffo gli è sfilata la storia del calcio napoletano. Lauro e Ferlaino presidenti, Sallustro direttore dello stadio, Zoff e Sivori compagni, Maradona come dipendente. Diego l'ha preso lui, stremando il Barcellona in 40 giorni di trattativa. «La verità è che per Maradona spingevo solo io. Ferlaino non lo voleva prendere». Ventuno anni dopo, ecco la storia. Parola di Totonno. «Mi dicono che c'è un'occasione per portarlo via al Barcellona. Riferisco, ma in società mi fanno storie. Dicono che è fantascienza. Dicono che ha la caviglia rotta. Dicono che costa troppo. Un giorno mi scoccio: lo volete o no? Ferlaino prova a fermarmi fino all'ultimo istante. Quando salgo sul volo per andare a chiudere il contratto in Spagna, mi consegna una busta chiusa. La apra solo in aereo, mi dice. Faccio così. Dopo il decollo leggo il biglietto e quasi non ci credo. Lo rileggo. "Caro Juliano, c'è scritto, ci ripensi. Valuti bene, l'operazione costa troppo, con quei soldi prendiamo 5 giocatori": e mi mette pure l' elenco con i nomi». I nomi sono ancora sul foglietto. «E' conservato in casa mia. Dico solo che uno era dell'Inter». Hansi Muller, il tedesco con le ginocchia di cristallo. «Feci di testa mia». Come già era successo quando da calciatore era andato via dal Napoli, unica bandiera del calcio italiano a lasciare la sua squadra. Quello che nessuno aveva fatto. Né Rivera col Milan, né Mazzola con l'Inter, né Riva col Cagliari. «Venivo da un anno pieno di infortuni. Tendiniti, talloniti. Avevo un massaggiatore di Torino che mi portavo dietro, a spese mie. Me l'aveva presentato Sivori. Un giorno perdiamo col Vicenza. Ferlaino dice che si va tutti in ritiro. Anche io che avevo 36 anni, una famiglia e 3 figli. Rispondo che allora smetto, non gioco più: prendo la borsa e torno a casa. Apriti cielo, c'è la finale di coppa Italia ancora da giocare, arriva una telefonata, un'altra, e poi un'altra. Decidiamo che prima la gioco e poi smetto».



Ma in estate, durante le vacanze, lo convincono di nuovo. «Sono al mare in Sardegna e viene a parlarmi l'allenatore Di Marzio. Dice che gli servo, vuole un uomo d'esperienza in campo, gli vado bene anche se non posso dare tantissimo. Siamo d'accordo. Dopo tre giorni un telegramma mi convoca in sede. Urgentemente. Pensavo per il contratto, così chiamo il presidente, gli giuro che non avrei creato problemi e che ne avremmo parlato con calma al ritorno dalle vacanze. Non è per il contratto. Vado e scopro che i programmi sono cambiati. Mi dicono che vogliono affidarmi il settore giovanile. Allora si accende la lampadina, e quando si accende la lampadina io le devo andare dietro. Rispondo che ho cambiato idea e che voglio giocare ancora. Chiedo d'essere lasciato libero: in realtà volevo decidere io quando dire basta, non doveva decidere il Napoli. Vado a Bologna, dove c'era Pesaola ad aspettarmi. Quand'è finito il campionato, mi hanno dato una medaglia d'oro e un assegno in bianco per premio. A Bologna ho capito cosa significa vivere».

Tre volte ai Mondiali con la Nazionale italiana, oltre 500 partite in serie A, ma Napoli sempre sullo sfondo. «Mi sono sempre sentito più rispettato che amato. Strana città, questa. Poco propensa ad accettare la bravura di un figlio suo. Ma quando dicono che non mi comporto da napoletano, non mi piace. Mi offendo». Un grande idolo: «Vinicio. L'unico a cui abbia chiesto l'autografo. Lui credeva lo prendessi in giro». Un grande debole: «Mi piace lavorare con i "figli di buona donna"». Un grande mistero: «Oggi sono divi e le veline gli corrono dietro. Noi eravamo trattati come analfabeti che sanno solo prendere a calci un pallone, e facevamo fatica a trovare una ragazza da portare a cena fuori». Un grande tormento: «A me visitavano le coronarie con uno sgabello: salivo, scendevo e ascoltavano il cuore. Con i mezzi di oggi riescono a giocare 60-70 partite in un anno. Sono fenomeni. O no?».

Repubblica Napoli, 28 agosto 2005

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