lunedì 16 maggio 2016

L'ultimo scudetto del Torino


Quarant'anni fa il Torino vinceva il suo settimo scudetto. Questa è la cronaca di quel giorno, attraverso le parole e le testimonianze d'epoca tratte dagli archivi. 
La curva Maratona è una piacevolissima orgia di rosso. Lo stadio intero ribolle d’un indicibile entusiasmo. Dopo 27 anni di sofferta attesa il Torino ha vinto il suo settimo scudetto. (…) Una cosa bella, grande, difficile da raccontare. Una cosa commovente diciamo senza ritegni e senza paure. Una festa di popolo che esulta per la sua squadra, assieme alla sua squadra. Tutti in piedi, tutti osannanti. E molti occhi lucidi di nostalgia e gonfi di ricordi a cercar Superga, là, sulla collina dietro il rettifilo dei distinti. Il nome di Valentino Mazzola che si unisce e confonde con quello di Claudio Sala, quelli di Gabetto, Ossola, Maroso sulle bocche di ognuno con quelle di Pulici, di Graziani e di Pecci. Abbiamo altre volte vissuto e goduto il giorno dello scudetto con l’Inter, col Milan, con la Juventus, ma nessuno mai come questo è stato di sicuro così intenso, così schiettamente popolare [1].
Ercole Faliva, un tubista di Codogno, provincia di Milano, 35 anni, se l'è fatta a piedi dal suo paese a Torino: partito da casa lunedì scorso, è arrivato giovedì alle 15 allo stadio di via Filadelfia dove la squadra si stava allenando. In tre giorni ha compiuto 130 chilometri alla media di 37 al giorno. Graziano Criscimanni, invece, ha scelto l'autostop: la distanza da Catania al Piemonte sconsigliava imprese podistiche. Da tutta Italia, con ogni mezzo, chi per voto chi per passione, i tifosi dei colori granata hanno marciato su Torino per assistere al giorno del trionfo. Attorno alla squadra, intanto, è fiorita una catena di iniziative commerciali: la "Boutique del tifoso" di Franco Costa non riesce a soddisfare tutte le richieste (un centinaio al giorno) di bandiere, coccarde e gigantografie del Torino; un giornalista, Salvatore Lo Presti, ha fatto stampare 50.000 copie di un suo libro sul Torino, "Profondo granata": quasi la metà sono state già prenotate a scatola chiusa [2].
Non basta rifarsi alla tragedia di ventisette anni fa, al rogo di Superga, alla lunga attesa delle tribù granatiere. Questo scudetto tinto di vermiglio, i fiori all’occhiello di tante persone costituiscono – seppur in modo inconscio – una rivincita prettamente torinese, piemontarda in ogni millimetro di osso e midollo, in ogni goccia di sangue per ogni vena. Perché la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un esperanto anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l’immagine della squadra granata è amata per quanto seminarono tanto tempo fa e in ogni luogo d’Italia i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso. Oggi, Torino granatiera gode. Clamorosamente. Ma si chiude anche a versare una lagrima di commozione nel groppo di tanta gioia, nel rilassarsi di tante tensioni. E si parla di calcio, di Pulici o Castellini o Claudio “poeta pelotero” solo per dar realtà a un sogno troppo vasto, quasi inabbracciabile. [3]
la Repubblica del 16 maggio 1976
la Repubblica del 16 maggio 1976
La paternità dell'impresa spetta soprattutto a Gigi Radice, brianzolo, 45 anni, detto "il tedesco" per il carattere rude e il taglio cortissimo dei capelli biondi. Assunto nell'estate scorsa, in un batter d'occhio Radice ha saputo ringiovanire, capire e correggere una squadra valida potenzialmente, ma fino allora immatura, debole in alcuni ruoli-chiave e incostante. Le componenti dello scudetto del Torino, alla resa dei conti, sono due. Gli acquisti di Caporale e Pecci dal Bologna e di Patrizio Sala dal Monza. Caporale, 29 anni, una carriera senza bagliori alle spalle, sembrava avviato tranquillamente alla pensione: Radice lo ha rispolverato facendone un libero stringato, moderno, capace di comandare a bacchetta la difesa. Pecci, 21 anni, ha saputo frenare il suo carattere ribelle e assumere la regia della squadra con la disinvoltura di un veterano. Ma la sorpresa più grande l'ha fornita Patrizio Sala, anche egli ventunenne, un fisico asciutto e nervoso, un po' come il terzino romanista Rocca, ma due polmoni a mantice. Dall'inizio alla fine del campionato ha corso senza sosta per il campo a ritmi vertiginosi sobbarcandosi una mole di lavoro massacrante. La seconda componente risiede nello schieramento tattico. Castellini portiere, Caporale libero, Santin e Mozzini sulle due punte avversarie, Salvadori (un'altra rivelazione) terzino a tutto campo, Patrizio Sala e Zaccarelli stantuffi sulle diagonali destra e sinistra, Pecci perno centrale di centrocampo a ordinare la manovra, Claudio Sala "uomo-ovunque" ma più spesso proiettato sulla fascia esterna destra, Pulici e Graziani pendolari sul fronte d'attacco: ecco lo schema di Radice. Rispetto a quello della Juventus è meno elaborato e richiede maggiore potenza, rispetto a quello che più comunemente viene seguito in serie A ha caratteristiche più spiccatamente offensive: le punte fisse sono due e sia Pecci che Claudio Sala gli offrono una collaborazione costante, risultando più rifinitori che centrocampisti. La fascia mediana del campo resta così affidata in gran parte a Patrizio Sala e Zaccarelli (chiamati a un enorme dispendio di energie), con Salvadori pronto a sostenerli: a correre sono soprattutto questi tre giocatori. Se ne giova soprattutto Claudio Sala, fino all'anno scorso geniale ma incostante, adesso - sollevato da obblighi pressanti di marcatura - più lucido, continuo nel rendimento e preciso: un calcolo statistico ha rilevato che dal piede di Claudio Sala sono partiti i passaggi decisivi per il 65 per cento dei 35 gol segnati da Pulici e Graziani. Radice, insomma, dopo avere studiato i piani a tavolino ha puntato tutto sulla coppia avanzata. Ne valeva la pena: nessun'altra squadra in Italia vanta due cannonieri del calibro di Pulici e Graziani. Per la prima volta nella storia dei campionati italiani, al primo e secondo posto della classifica cannonieri figurano due giocatori della stessa squadra. Questo è il "nuovo" Torino: più forte, sostengono in molti, del "grande" Torino, quello scomparso a Superga. Difficile fare paragoni a così lunga distanza di tempo. Allenamenti, tattiche e avversari di allora erano troppo diversi da quelli di adesso. [2]
L’impresa realizzata dal Torino di oggi è in tutto degna del Torino di allora. Essa non premia soltanto la tenacia, il puntiglio, l’impegno di un presidente come Pianelli e degli uomini che lo hanno affiancato, da anni cercando di assicurarsi i giovani più promettenti e validi con un coraggio che ha talvolta sfiorato la temerarietà e il puro rischio. Essa non premia soltanto un giovane allenatore come Radice, che ha dato prova delle sue indubbie qualità tecniche e umane, impiantando in pochi mesi una formazione logica e guidandola con gelida calma – virtù finora sconosciuta nell’ambiente granata – nel periodo più teso della stagione. Essa premia soprattutto i tifosi, rimasti incrollabilmente fedeli alla loro bandiera anche dopo il declino susseguito al terribile rogo di Superga [4]
Volere lo scudetto ha significato soffrirlo. Solo all'ultima giornata, che dico, solo agli ultimi minuti del campionato lo scudetto è divenuto granata ventisette anni dopo Superga. Il mito doloroso che sublimava un passato di gloria e che pareva gelosa memoria di un tempo perduto si aggancia oggi a questa splendida realtà e in essa si rinnova. E nessuno osa più dire - chi l'avrebbe detto - come più volte ha pensato e ha detto nelle convulse tappe del torneo, e come più volte s'è domandato con disperata trepidazione nel corso di questa stessa partita perché il Torino - come si dice - è una fede - ed il momento così a lungo atteso dopo troppe dispersioni doveva arrivare [5]
L’urto che la vittoria granatiera porta al mondo della nostra pelota è altamente positivo, propizio e da imitare. Una strada globale ma casalinga, senza inutili millanterie olandesi o teutoniche. Ed è una vittoria che farà del bene ulteriormente alle due società, ai loro diversi popoli sostenitori: perché cancella di colpo quei residui di vittimismo e di doloroso rimando che travagliavano l’animo granata; perché consente al club cugino e avversario di iniziare qualche mossa di rinnovamento; perché questo stesso club bianconero, perdendo seppure da secondo l’ennesimo titolo, scavalca di un balzo tutte le menzognere campagne contestatorie che lo hanno assillato per almeno due anni; e perché, infine, un Torino di questo stampo, in una prossima Coppa dei Campioni, sarà squadra da vedere, con curiosità e responsabilità di giudizio. La festa grande non abbisogna di spiegazioni ulteriori: è un risultato, un traguardo di per sé. I vari mediconi della critica sportiva ora si chineranno a scrutare e a diagnosticare tanti perché. Lasciamoli fare: tanto non parlano il nostro dialetto. Limitiamoci a constatare questa legge: che almeno nello sport talvolta vince il migliore. La gioia popolare parte anche da qui [3]
note
[1] Bruno Panzera, l'Unità, 17 maggio 1976
[2] Franco Recanatesi, la Repubblica, 16 maggio 1976
[3] Giovanni Arpino, Stampa sera, 17 maggio 1976
[4] Gianni De Felice, Corriere della sera, 17 maggio 1976
[5] Giorgio Mottana, la Gazzetta dello sport, 17 maggio 1976

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