sabato 7 maggio 2016

Dieci anni di gomorra

NAPOLI. Le dieci parole con cui è cominciato tutto. «Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave». Aprile 2006, Gomorra era ancora una delle città del Mar Morto distrutte dal dio della Genesi. Tre mesi prima, I ragazzi di Scampia erano andati a cantare al festival di Sanremo. Dopo dieci anni e 10 milioni di copie vendute, con un film premiato a Cannes e una serie tv comprata in 150 Paesi, Gomorra è diventata parola che connota e che divide, nata per denunciare e spesso denunciata. Napoli ha cambiato cinque questori e due sindaci, Rosa Russo Iervolino la chiamò «una visione unilaterale», Luigi de Magistris definì Roberto Saviano «fiancheggiatore involontario del male». Dentro un quadro politico in cui la camorra è responsabilità delle giunte locali quando si è all'opposizione e materia da governo nazionale se invece si amministra, più di un Comune nell'hinterland ha negato le proprie strade alla produzione della serie tv, accusata di mostrare solo il Male. Una seconda stagione non era scontata. Nella scena finale della prima, al moribondo Genny Savastano fecero muovere un dito per lasciarsi una porta aperta.

Il sequel è nato (dal 10 maggio su Sky Atlantic, il martedì alle 21.10) e Andrea Scrosati, vicepresidente per i programmi di Sky, parla di prodotto pilota, «che ha consacrato l'Italia come nel decennio scorso accadeva ai Paesi scandinavi nella scia dei noir di Stieg Larsson. Gomorra spicca per la sua unicità glocal, una recitazione in napoletano che racconta dinamiche universali». E le polemiche? «The Wire è ambientato nel sottoproletariato di Baltimora, ma nessuno ci legge un giudizio sulla città». Gomorra, ormai parola-tag, resta invece un caso da analizzare. Partendo dalle origini.
Oggi direttore editoriale di Giunti per narrativa, saggistica e varia, Antonio Franchini nel 2006 fu tra i primi in Mondadori con Helena Janeczek ed Edoardo Brugnatelli a cogliere la potenza del testo di Saviano. «Era la scrittura di un venticinquenne. Magmatica, disordinata, creava connessioni. Facemmo un normale lavoro redazionale. Gomorra uscì, ed era il testo di Roberto, con la forza e la deriva di una scrittura ansiosa». Con un suo mondo – fu la prima accusa, che tuttora resiste – ibrido per scelta, metà saggio e metà fiction.
«Ma è un filone» ricorda Franchini, «che risale a Capote e Kapuscinski. Scegliemmo di raccontare tutto con nomi e cognomi, la serie tv va per un'altra strada. Il film di Garrone invece rivaleggiò con il libro, il cui effetto è stato analogo a La pelle di Malaparte. Certe polemiche vanno sempre allo stesso modo, meccanismi avvilenti nella loro banale ripetitività. La letteratura deforma la realtà e la rende più profonda. Non è importante stabilire se la scena dei cinesi nei container sia inventata, basta che sia potente per essere più vera del vero».
Del film di Garrone, Maurizio Braucci fu sceneggiatore. Guarda nell'insofferenza degli abitanti di Scampia e dice: «Capisco che possa essere pesante vedersi rappresentati in un certo modo. Credo che però ci sia stata una rimozione da parte di chi non voleva assumersi delle responsabilità. Scampia è solo uno dei teatri e oggi è un luogo cambiato. Non è l'inferno, ma una periferia come altre, un laboratorio di parrocchie e associazioni che lavora su ragazzini, spesso figli di mafiosi. Il senso di stare lungo una frontiera è assumerne le contraddizioni».
A Portici, nel cui cimitero la serie di Sky ha potuto girare alcune scene, Leandro Limoccia guida il coordinamento contro le camorre: sportelli anti-usura, pane gratuito, una farmacia sociale, lotta al gioco d'azzardo. «Gomorra è una parte del problema, il tema è quello della dignità colpita delle persone, che le istituzioni ignorano. Se in queste fiction ci fosse anche un personaggio che si sporca le mani, la realtà sarebbe rispettata di più. I ragazzi recuperati valgono dieci Gomorra, ma non fanno notizia».
Intanto, in Gomorra 2 appare la polizia. Il Venerdì ha visto in anteprima i primi due episodi. La serie porta i contrasti e i lutti dentro le famiglie. Un padre contro un figlio, una moglie contro un marito, amici che si ammazzano, un uomo che si fa vent'anni di galera in cambio di seimila euro al mese. Madonne, statuine, camorristi che fanno la croce a tavola prima di mangiare. Stefano Bises e Leonardo Fasoli sono i coordinatori editoriali. Hanno guidato il processo di scrittura. Bises: «Sarebbe sbagliato disumanizzare i boss. È una serie sui sentimenti dentro vite schizofreniche. Ma tutte le volte che ti affezioni a uno di questi personaggi, ti arriva uno schiaffo. C'è responsabilità verso lo sguardo di Saviano, la preoccupazione di non creare miti». Per questo devono morire in tanti, a costo di privarsi di sviluppi narrativi su personaggi che funzionano. Fasoli: «Perché da Gomorra si esce in due modi: andando in galera o rimanendo uccisi. Abbiamo scoperto che molti killer muoiono di cancro al fegato. La violenza incide sulle loro vite».
Maddalena Ravagli è nella squadra degli sceneggiatori: «Da anni Un posto al sole mostra un'altra faccia di Napoli. Qui si racconta un grido di dolore, una richiesta d'aiuto alla società italiana». Ludovica Rampoldi, anche lei al lavoro sul copione: «Se ci si dimentica del problema, il problema non smette di esistere».
Gomorra 2 è scritto e recitato in un napoletano aspro, Fasoli spiega che «sono i verbali a offrire ragionamenti, espressioni, codici». Bises: «Non è la realtà a copiare Gomorra, ma il contrario. È intollerabile sentire amministratori che chiedono conto del nostro lavoro. Si giustificassero altri. La coscienza putrida non tollera che la realtà gli sia sbattuta in faccia».
Le novità della nuova serie sono due personaggi femminili, affidati a Cristina Donadio e Cristiana Dell'Anna. Gina Gardini, produttrice per Cattleya, ammette che «Scianel e Patrizia nascono dal rimpianto per aver fatto uscire di scena Imma troppo presto». Le donne boss. Pure queste nei verbali.
Osteggiata da sindaci (Acerra, Afragola, Giugliano) e mal digerita da questori: è la parabola di Gomorra. Marco Ciriello è lo scrittore che ambientò a Castel Volturno il suo romanzo Il vangelo a benzina (Bompiani, 2012). Ragiona: «I napoletani sono permalosi. Hanno bisogno di esserlo perché esistono solo quando vengono toccati. Ma è vero che a Napoli manca il post-moderno. O c'è l'oleografia o c'è l'accusa. Forse nei libri servirebbero più mostri e immaginazione, meno poliziotti e contrabbandieri. Ci sarà pure a Napoli gente normale: che non spara e non urla per Higuaín, che parla di Gaetano Filangieri? Gomorra rappresenta la realtà, io sono critico sul modo. Manca la complessità. C'è epicità. Forse bisognerebbe ridere di come vestono i camorristi, ma Napoli si è incupita. Invoco la fondazione delle Brigate Massimo Troisi. Nella lettura della malavita, Gomorra è indietro rispetto al Capuano di Luna Rossa. Lì c'era tragedia greca, ora c'è l'America».
Eccolo il regista Antonio Capuano, il film citato è del 2001. «Trattai la criminalità sul modello dell'Orestea. Vedevo i camorristi come persone infelici nella loro latitanza, chiusi nei loro tuguri, nelle loro botole, nel bunker nero di questa vita orrenda. Un boss con il volto di Pacino o De Niro è invece un'insidia per i tredicenni in certi contesti. Ho re-incontrato il ragazzino che girò con me La Guerra di Mario, ed era fiero di aver fatto la comparsa in due episodi di Gomorra. Mi ha sconvolto. Gomorra è la nuova cartolina di Napoli. Aderisce all'idea che si ha della città. Mi spiace che sia coinvolto Saviano, uomo di grande impegno civile. Dopo un libro con un tale sguardo, dopo aver accumulato dolore ed esilio, non mi capacito che si dia da fare per un'operazione così.
Il post Gomorra ha tradito Gomorra. Ne ha fatto un fenomeno rionale». Sei mesi dopo l'uscita del libro, Roberto Saviano cominciava la sua vita sotto scorta e a portare Gomorra nella carne. Più reale di così.

(uscito sul Venerdì il 29 aprile 2016)

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