venerdì 24 giugno 2011

Napoli, i figli di Eduardo e i figli di Leopardi

Poco più di un mese fa, in piena campagna elettorale per le amministrative, il direttore della biblioteca nazionale di Napoli Mauro Giancaspro auspicava attraverso il Corriere l'avvento di un sindaco promotore di un cambiamento radicale nella cultura della comunità.
Il titolo era bello: "Ora per la città meno Eduardo e più Leopardi". Un titolo così bello scava nella testa. Rimane dentro. Torna a galla appena può. Come in questi giorni, visto quel che succede. Ma proprio perché succede quel che succede, bisogna chiedersi cosa dicesse quel titolo. Perché e in che cosa Napoli dovrebbe provare a essere più figlia di Leopardi per diventare migliore?
Intanto: di quale Leopardi. Se è quello dello Zibaldone, siamo dinanzi a una concezione di felicità legata soprattutto all'illusione. L'uomo immagina piaceri inesistenti, il suo bene maggiore è la speranza. E' davvero questa la più auspicabile delle Napoli possibili?
Ma Giancaspro si riferiva ad altro. Per eredità virtuosa di Leopardi (poeta sepolto a Napoli, va ricordato), intendeva "la restituzione alla città di una passione lucida". Se è così, allora, il poeta è uno fra i tanti genitori adottivi possibili.
Più interessante diventa perciò sciogliere l'altra metà del nodo.
Perché Napoli dovrebbe provare a essere meno figlia di Eduardo?
Il direttore Giancaspro sostiene che Napoli abbia un nemico in casa. La napoletanità. L'immagine oleografica. Macchiettistica. Ed è vero, sebbene meritasse un accenno la celebre distinzione fatta da Raffaele La Capria e Domenico Rea su napoletanità e napoletaneria. Comunque. Dice Giancaspro che un napoletano più serio e rigoroso si sente spesso chiedere Ma che razza di napoletano sei?. Verissimo pure questo. Aggiunge: "Come se i napoletani fossero tutti uguali a quelli descritti nelle commedie di De Filippo, ridanciani, simpatici, arruffoni e con almeno uno zio contrabbandiere...". E qui la teoria scricchiola. Viene attribuita a Eduardo anche "una apologia della povertà buona, il compiacimento per una presunta diversità di sentimenti". E qui la teoria definitivamente crolla.
Ridanciani, simpatici e arruffoni - tralasciando lo zio contrabbandiere - i napoletani di Eduardo lo sono poco o niente. Non è tale Domenico Soriano (marito di Filumena Marturano), non lo è Gennaro Jovine (il capofamiglia di Napoli milionaria), spietato verso "la povertà buona" che diventa borsa nera e contrabbando; ancor meno lo sono i cattivissimi Saporito e Cimmaruta (Le voci di dentro). L'ultimo personaggio partorito da Eduardo fu Guglielmo Speranza (Gli esami non finiscono mai), uno che si chiude al mondo e smette di parlare, altro che prendere il mandolino con una mano e la pizza con quell'altra. Problematici, introversi, nevrotici. Ce ne sono tanti di personaggi così, in Eduardo, l'uomo che urlò Fujtevenne. Dov'è il compiacimento?
Il teatro di Eduardo è giunto a un successo su scala mondiale attraverso temi e personaggi incredibilmente global, come un pomeriggio all'università fece notare Aldo Masullo. A meno che non si abbia in mente il solo mago Sik-Sik, e a quello ci si voglia fermare.
Ma stare fermi a Napoli non si può. Si verrebbe travolti dalla Sindrome Napule è, canzone che si ribellava all'oleografia nel 1977, mentre oggi dobbiamo chiederci se dell'oleografia non faccia parte a pieno titolo. O se non faccia parte di una contro-oleografia. Perché è dinamica pure l'oleografia, se con questa parola intendiamo una rappresentazione attraverso un luogo comune: si tratti della cartolina o della sceneggiata, della bellezza del Vesuvio con il pino o della sua faccia putrida e tumefatta.
Esiste, come no, un'ombra oleografica appiccicata addosso ai napoletani, ma non pare allungarsi dalle commedie di Eduardo. Anzi, certi suoi personaggi sembrano persino i progenitori di un nuovo tipus neapolitanus timido e riservato, che ebbe la sua prepotente epifania ormai 30 anni fa con la geniale narrazione di Massimo Troisi (Ricomincio da tre). Non tutta la cultura napoletana può essere tacciata di oleografia, addirittura non tutto il folklore si riduce sempre a macchietta. Leggere Napoli attraverso quella lente non è solo un terribile sbaglio. E' un'operazione. E forse perciò bisogna domandarsi se la presunta eccezionalità napoletana, nella sua faccia noir e in quella più luminosa, sia fino in fondo un prodotto endogeno, o se non si tratti di un format pigro, adottato, quasi richiesto, per non dire imposto dal grande circuito della comunicazione (giornali, romanzi, saggi, film). Che propone Napoli così. Una e trina.

Ma nell'interessante ragionamento del direttore Giancaspro spunta in controluce un altro tratto di cui sarebbe bello discutere: l'ansia, questa sì davvero napoletana, di essere i più feroci critici di noi stessi. Della nostra storia, della nostra cultura, della nostra cronaca. Proprio negli anni in cui l'orgoglio altrove sa promuovere ogni minima virtù local e giustifica ogni gigantesco peccato.
Chi lo sa, forse a Recanati c'è qualcuno che vorrebbe essere più figlio di Eduardo e meno di Leopardi. Solo che non lo dirà mai.

1 commento:

Brian63 ha detto...

...bellissima riflessione...