domenica 8 gennaio 2017

Mannheim e i 200 anni della bicicletta


MANNHEIM. In un giovedì di fine primavera, il figlio del giudice di Baden uscì di casa con il peso dei suoi quattro nomi, un titolo di barone che non vedeva l’ora di ripudiare e un attrezzo di legno che fece ridere i passanti. Aveva due ruote, otto raggi, un sellino e l’ambizione di proporsi come alternativa al calesse. Il 12 giugno saranno passati duecent’anni dalla prima passeggiata, e se questo 2017 nasce nel segno della bicicletta, bisogna tornare dove tutto cominciò, tra il Reno e il Neckar, a Mannheim, città che alle strade del suo centro urbano non ha dato nomi ma numeri e lettere. Karl Friedrich Christian Ludwig Freiherr Drais von Sauerbronn partì dal blocco M4, dove oggi sono disposte decine di uffici dentro cubi di mattoni rossi e bianchi, e dove allora, a poche centinaia di metri, aveva abitato la signorina Constanze Weber, andata in moglie a un ventunenne musicista di un certo talento, di nome Wolfgang e di cognome Mozart.


La bicicletta del signor Karl portava un timone al posto del manubrio, non aveva pedali e per la verità non aveva neanche un nome; lui la chiamò semplicemente per quel che era, Laufmaschine, una macchina per correre, e di corsa – piedi a terra – se ne andò per sette chilometri da Mannheim verso Schwetzingen, fuori città. Un tipo bizzarro questo Drais, così almeno è stato descritto per oltre un secolo e mezzo, uno che aveva lasciato il suo lavoro di guardia forestale per rinchiudersi anima e corpo in un magazzino, perdendosi dietro invenzioni e fantasie. Un estintore, un tritacarne, un periscopio. Finché sette anni fa, con una biografia più accurata, il fisico Hans-Erhard Lessing gli ha restituito tutti i meriti da visionario innovatore. Schwetzingen non esiste più, ingoiata ormai dalla città nel distretto di Rheinau. Lungo la via dove Karl Drais passeggiò su due ruote alla velocità di 15 chilometri all’ora, i binari del tram numero uno segano a metà un sobborgo in cui le attrazioni sono una sala fitness e un drive in. Supermercati, negozi di cosmetici, insegne cinesi. Drais sgambettò qua con la sua macchina, concepita in preda a un’ossessione.

Due anni prima, dall’altra parte del mondo, l’esplosione del vulcano indonesiano Tambora e la più grande eruzione della storia avevano causato un cambiamento globale delle condizioni meteo. L’estate 1816 in Europa era iniziata e finita senza sole, interi paesi erano stati travolti da lastre di ghiaccio, le temperature si erano abbassate di tre gradi. Grano, riso e avena giunsero a costare tre volte tanto. I cavalli avevano due prospettive: morire di fame o essere mangiati dagli uomini. Perciò Drais immaginò di farne a meno: un anti-cavallo, come Gianni Brera avrebbe poi chiamato la bicicletta. E assai simbolicamente, come forse farebbe un pubblicitario attuale, fermò quel giovedì la sua passeggiata alla locanda di Schwetzingen, la stessa in cui di solito le carrozze sostavano per far riposare gli animali. Drais svoltò alla rotonda e se ne tornò a casa. Nei duecento anni successivi, alla draisina sono stati aggiunti poggiapiedi e pedali, la catena e la moltiplica, i pneumatici e la camera d’aria, i cuscinetti a sfera e i campanelli, i tubi e il portapacchi, perfino il motorino per la pedalata assistita.

La bici è stata subito un pericolo. Quando arriva in Francia come vélocipède e in Inghilterra come hobby horse, le strade sono così segnate da carri e zoccoli che i proto-ciclisti viaggiano ai bordi, mettendo a rischio il passo dei pedoni. A Milano la polizia ne vieta l’uso di notte, l’Italia clericale si mostra sospettosa. Settantasette anni dopo Drais, la Gazzetta di Venezia avverte i «mariti gelosi» di guardarsi dai tandem, perché «il velocipedismo è un’invenzione infernale» giacché la donna molto spesso cade, e cade nelle braccia altrui. Un assedio al pudore. Edoardo Bianchi, l’industriale che aveva applicato l’invenzione di Dunlop alle ruote, era di casa presso Palazzo reale, dove dava lezioni a Margherita di Savoia ma «aveva fatto costruire speciali manopole con cui poterla guidare senza toccare il suo corpo» (Gabriella Turnaturi, Signore e signori d’Italia, Feltrinelli, 2011). Insidiosa, questa bici. Anticiperà la rivoluzione sessuale. Argia Sbolenfi pubblica nel 1897 una raccolta di poesie, scrivendo rime esplicite in ode al sellino («io son beata allor che fra le gambe sento il rigido ordigno»). Lorenzo Stecchetti, nella prefazione, la accusa di pornografia. Solo che sia Argia sia Stecchetti sono pseudonimi di Olindo Guerrini, esponente della scapigliatura romagnola. Gino Boccasile disegnerà durante il fascismo una delle sue ragazze formose in sella, vestito aderente e gamba sinistra in vista. Ma con la guerra l’eros svanisce, l’anti-cavallo diventa strumento di libertà dei partigiani. Prima ancora di vincere il famoso Tour de France del ’48, riunendo intorno alla sua impresa l’Italia che rischiava di spaccarsi per l’attentato a Togliatti, Gino Bartali aveva salvato centinaia di ebrei procurando loro documenti falsi, nascosti nei tubi della bici. De Sica e Zavattini ne porteranno una fino all’Oscar, imponendola nell’immaginario degli italiani, che ne faranno un mezzo di trasporto e del tempo libero, dunque il primo oggetto di massa nella società dei consumi. Il sorpasso delle automobili avverrà solo nel 1971. Intorno alla bici l’Italia ha saldato le masse e le élite. Il ciclismo è «lo sport più popolare perché non si paga il biglietto» (Pasolini) ed è quello che i grandi scrittori hanno scelto di raccontare. Al Giro d’Italia i giornali invieranno Vasco Pratolini e Alfonso Gatto, Dino Buzzati e Anna Maria Ortese, perché ogni corsa sa tenere insieme il viaggio, l’attesa e la strada, tre cardini della letteratura, come sapevano da Omero a Leopardi, a Kerouac.

dal Venerdì di Repubblica, 30 dicembre 2016  >>> continua qui

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