giovedì 14 luglio 2016

Il Ventoux e lo strano fuoco nel petto

IL TOUR de France aggredisce, oggi, il Ventoux, un Moloch, secondo la leggenda, che accompagna la più grande corsa ciclistica del mondo, a cui bisogna sacrificare. Il Ventoux è una montagna calva, affetta da seborrea secca. Lo vedi dalla bassa Provenza. Millenovecento metri di un verde che stinge, impallidisce, si spegne. Verso il culmine il Ventoux imbianca. Da lontano, un monte di sale. Il "mistral" batte il "ventoso". Il ricordo scolastico, arioso del Petrarca - che soggiornando ad Avignone sale sul Ventoux, a maggio quando le pietre restituiscono il tepore del sole del mezzodì - si liquefa, scompare, nella calura di luglio, nel corso del Tour. Il Ventoux è rimasto per il Tour il dio del male dell'antica Provenza. Il suo clima è assoluto. Gli uomini da classifica lo pedalano con il fiato che si rompe in gola, alle prese con un rapporto (la marcia ciclistica) che incarognisce la ruota dentata, che la trasforma in uno strumento di tortura [1]

Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani [2]

Le note gentili del Monte Calvo, della Sentinella di Provenza, del Colle delle Tempeste le fornì Francesco Petrarca, primo degli scalatori famosi nella notte del 25 aprile 1336. Si può aggiungere che è riserva naturale, con la caratteristica di contenere flora mediterranea (cedri, pini) e dell'estremo nord (la sassifraga delle Spitzbergen). Le note pesanti, drammatiche, ce l'ha messe il ciclismo. Già nel '57, in "Miti d' oggi" Roland Barthes scriveva: "I grandi colli, alpini o pirenaici, per quanto duri, restano comunque dei passaggi, sono vissuti come luoghi da attraversare. Invece il Ventoux ha la pienezza della montagna, è un dio del male al quale bisogna offrire sacrifici" [3]

Un anno ho veduto il giovane Gerdi Kubler, il naso affilato come un tagliacarte, cercare invano un refolo d'aria fresca, sbattere le braccia alla maniera di inutili ali e rotolare in un fosso, completamente asfittico. E ancora Mallejac, secondo in graduatoria, fierissimo della sua maglia di regionale di Francia, sterzare ai margini, cercando un'inesistente scorciatoia. Mallejac venne salvato di misura. All'ospedale, in ambulanza, in tutta fretta. Aveva fatto ricorso alla "bomba", si saprà. Il suo direttore sportivo, un patriarca dello sport ciclistico, sentenziò: "Lui aveva voluto rubare il fuoco a dio". Il dio era il Ventoux [1].

Il Giro di Francia ha portato alla notorietà questa montagna che non fa parte di nessun grande sistema montuoso e che solitaria troneggia nel bel centro della Provenza con il suo grosso cono di pietre e di sassi. Antico vulcano? Bisognerebbe consultare gli studiosi di geologia. I provenzali dicono che esso è la casa dove segretamente abita il mistral, il vento che ogni giorno batte, da est a ovest, e da ovest a est, con la regolarità di una marea, sulle campagne della Provenza. Fino a 1100 metri il monte è coperto da una vasta foresta di conifere. Più su comincia una interminabile candida sassaia che per vari chilometri non offre il più piccolo riparo d’ombra. La strada sale con lenti gironi, come nel dantesco monte del Purgatorio, su per gli spalti sassosi che nelle giornate di corsa sembrano assomiglianti alle tribune di una gigantesco anfiteatro [10].

Il Ventoux è una montagna strana e cattiva, pur non arrivando ai 2000 metri. La cima è una pietraia che fa inevitabilmente pensare alla Luna. Manca il respiro. Il caldo è insopportabile. Anche quando si attraversa la foresta di pini non c'è ombra. Si può arrivare in cima per tre versanti: il più dolce è quello a est, parte da Sault, e il Tour l'ha sempre ignorato. Quello nord parte da Malaucene, è ugualmente duro ma un po' più ombreggiato di quello sud, affrontato in prevalenza. La salita comincia da Bedoin. Sempre da qui furono le auto, nel 1902, a scalare il Ventoux. La prima corsa organizzata risale al '35. Il Tour ci passò la prima volta nel '51. Un punto chiave della salita, (oggi un po' meno, si è addolcita) è la curva di St. Esteve, circa 6 km oltre Bedoin. Secca svolta a sinistra e poi sette tornanti al 9% di pendenza media. Verso Chalet Reynard, 6 km al traguardo, sparisce la vegetazione e comincia l'inferno. [3]

Anche il Tour del '58, non scorderò presto. Un triangolare Charly Gaul, Bahamontes "el cabron" e Jacques Anquetil. Ventoux a cronometro. Gaul trinciava inimitabile i tornanti: Bahamontes gli disputava la pista nera fra le selci candide metro metro. Anquetil era staccatissimo: ce la faceva appena a mimetizzare la cotta con lo stile innato. Vinse Gaul, che non raggiunse il traguardo piazzato a lato della stazione meteorologica, ma che planò sullo striscione come un arcangelo. Scrivemmo allora di accasciamenti mortiferi. Non sapevamo che nel '67 l'accasciamento sarebbe stato mortale. Il Ventoux del '67 è legato alla memoria di Tommy Simpson. Il povero Simpson l'ho inciso nella retina dei miei occhi. Steso nella piega di pietra di una duna, in un avvallamento scistoso, il dottor Dumas, rovesciato su di lui, disperato, che gli pratica la respirazione bocca-bocca. Simpson, che rappresentava lo whisky, nel mondo del chianti e del beaujolais del ciclismo, era partito nel Tour con una cera da fare trepidare. Tentava disperatamente di risalire le quotazioni della borsa dei valori. Il botteghino del velodromo esigeva il Tour o un aureo piazzamento al Tour. Forse Tommy non avrebbe voluto rubare, al pari di Mallejac, il fuoco al dio Ventoux: una scintilla gli sarebbe bastata. Fu veduto zigzagare sul Ventoux, quasi volesse inseguire la sua ombra sottile che gli sfuggiva davanti al manubrio: eppoi crollare. Dentro gli pedalava un altro. La notte tristissima giù ad Avignone. L'elicottero aveva trasportato Simpson clinicamente morto all'ospedale della città. Sulla soglia della sala stampa era apparso, piangente Jean Leulliot, inviato de L'Aurore e amico personale del campione, "Tom è morto da alcune ore, avvertì, ma la sua temperatura corporea non accenna a diminuire. Io non ci voglio credere". La carovana sentiva parlare, smarrita, di un intervento del signor procuratore della repubblica. (Sarebbe bastato, mi dirà anni dopo il professor Mantegazza, l'iniezione di un piccolo farmaco e Simpson sarebbe ancora fra noi). Nel '70 Merckx si butterà contro il Ventoux, con lo stile di un cavallo matto. Il respiro gli si accorcerà di molto. Il vantaggio pure. In vetta svenne. Per riprendersi gli ci volle l'ossigeno. Il Tour gode, oggi, di una valida protezione scientifica. La tecnologia lo assiste. Simpson non è una fotografia ingiallita. Ogni qualvolta mi è capitato di avvicinare il Ventoux o di sentirmi chiedere del Ventoux ho sempre pensato o risposto che di una montagna personificata o di natura antropomorfica si tratta [1].

Una morte al Tour fu anche quella di Simpson, il 13 luglio 1967. Si saliva il calvo Ventoux, una montagna scistosa, bianca come di sale. Ventun chilometri di pietre calcinate. Il sole era verticale. D'un tratto, un poliziotto della Gendarmerie si precipitò all'indietro, alla ricerca del medico di corsa. L'inglese Simpson, un campione, irrimediabilmente staccato, era stato visto zigzagare: cascare una-due volte, sulla strada di un asfalto che era pece: infine accasciarsi. Una puntura: il respiro bocca a bocca. La folla che lentamente fa cerchio. All'ospedale di Avignone, Simpson giungerà morto per collasso cardiaco. Immediatamente dissero doping: e poi girò la voce che Simpson aveva fatto irruzione in bar di Bedoin, per bere un "pastis" e del cognac. Un inglese ci rese noto che due anni prima, Simpson aveva dichiarato di avere fatto ricorso, qualche volta, al doping, nell'esercizio del suo mestiere: ma che in un'epoca in cui i Beatles si permettevano di comprare una pagina sul Times per vantare la marijuana, la dichiarazione di un ciclista non poteva choccare nessuno. Quella dichiarazione mi indignò [4].

Simpson era un corridore coraggioso e spiritoso, capace di tutto, anche di abitare in un brutto paesino vicino Gand per fare meglio il mestiere, e di avere amici in Brianza. Come molti inglesi sognava di andare a vivere in Toscana o in Provenza. Sapevo che aveva già firmato per la Salvarani, Gimondi aveva perorato la sua causa. A Marsiglia il ritrovo di partenza era sotto il santuario di Notre Dame de la Garde. Simpson aveva inzuppato d'acqua minerale un fazzoletto bianco e aveva mimato una benedizione dei corridori, poi se l'era infilato sotto il cappellino. C'erano più di 40 gradi all'ombra. Dumas, il medico del Tour, era preoccupato: "Se qualcuno ha fatto il furbo, ci ritroviamo con un morto". Era una giornata nata male. Un cane si infila in gruppo, Mugnaini e Peffgen sono portati in elicottero all'ospedale di Marsiglia, fratturati in più punti, dopo venti chilometri. Pingeon è maglia gialla. Si passa da Apt, si sale il Col des Murs. Gruppo compatto al primo passaggio da Carpentras. Ultimo rifornimento d'acqua. E' Jimenez, l'orologiaio di Avila, che attacca alla curva di St.Esteve, con Poulidor a ruota. Rispondono Pingeon, Gimondi, Aimar, Janssen, Balmamion, Simpson, Letort e Castello. Poulidor va in bambola, Jimenez passa in cima con 1'10" su Gimondi, raggruppamento dei migliori in discesa e Janssen batte allo sprint Gimondi. Simpson è rimasto in salita. S'è staccato dal gruppetto, prova ad alzarsi sui pedali ma non gli reggono le gambe. Ho scritto che cadde, ma più che altro si coricò su un fianco. Poi poche pedalate da sonnambulo e l'ultimo crollo. Uno spettatore fa la respirazione bocca a bocca, poi arriva Dumas. Iniezione, massaggio cardiaco. Simpson è steso al sole con gli occhi aperti, la testa su un sasso rotondo. All'ospedale di Santa Marta arriva morto, ore 16.30. Levitan ne dà l'annuncio nella sala-stampa di Carpentras, che era una chiesa sconsacrata. Molti piangono. L'autopsia parlerà di tracce di amfetamina come concausa (altra, l'insolazione) della morte. Anni dopo, Ferretti, gregario di Gimondi, mi disse che uno spettatore pazzo aveva passato una borraccia a Simpson, che aveva tracannato pensando fosse acqua. Era cognac. Davanti alla stele di Simpson, nel '70, passa il grande Merckx. Ha attaccato a Chalet Reynard, si toglie il berrettino e si fa il segno di croce. Ha il lutto al braccio per la morte di Giacotto. Vince con un 1'11" su Vandenbossche, suo gregario. Finiscono tutt'e due attaccati alla maschera d'ossigeno. I vecchi dicono che la sua cadenza di pedalata (74-75 al minuto) è troppo alta per il Ventoux. E questo ci porta ad Armstrong, che non ama il Ventoux. Nel '94, quando vinse Eros Poli dopo una cavalcata solitaria di 170 chilometri, proprio quel mattino Armstrong non prese il via. Quando l'ha scalato nel Delfinato, nel '99 a cronometro ha concesso un minuto a Wauters, quest'anno è scoppiato a 1100 metri dalla cima perdendo 1'13" da Hamilton. Dovrà stare attento al ritmo per non arrostirsi. Da Kubler (spaventosa cotta nel '55, fine della carriera sul Ventoux) a Merckx tutti hanno parlato di uno strano fuoco nel petto [5].


I corridori sul Ventoux non vogliono più andare. Dicono che è una montagna maledetta: chilometri e chilometri senza un filo d’erba, con l’aria rarefatta, col respiro affannoso e il sole che picchia implacabile. Ieri la partenza era stata posticipata per evitare il gran caldo, ma è servito a ben poco: il Ventoux è sempre terribile. Poulidor ha detto: “Siamo pagati anche per certi rischi ma c’è un limite a tutto. Non correrò mai più su questa montagna, mi spaventa”. Merckx ha aggiunto: “Ci sono venti chilometri di salita e sembrano mille. Manca l’ossigeno, il respiro è affannoso. Mi sembrava di non arrivare mai in cima. Uno sforzo tremendo” [6].


Sono trascorsi vent’anni e in molti di noi è ancora vivo il ricordo di quella giornata. A metà strada la notizia che il ventinovenne Simpson (due stagioni prima campione del mondo e vincitore del Giro di Lombardia) si era fermato e che i medici stavano soccorrendo il corridore steso sull’asfalto. Una notizia allarmante e mentre la vettura dell’Unità scendeva verso Carpentras, verso un traguardo dove l’olandese Janssen avrebbe battuto Gimondi e Pingeon, mi domandavo il motivo per cui non si avevano precise informazioni sulle condizioni di Simpson, detto il baronetto per il suo comportamento a volte composto, a volte allegro e spensierato. Simpson, in quel momento, era già morto. Vani i soccorsi, vani i tentativi di rianimazione, ma il decesso di Tom venne comunicato un’ora dopo la fine della corsa, come se gli organizzatori dovessero coprire qualcosa. Una inchiesta promossa dalla magistratura francese appurò che nelle viscere di Simpson c’erano i resti di farmaci assai dannosi, di un doping che aveva provocato la tragedia, ma scrissi allora che in un vero processo dovevano andare sul banco degli accusati coloro che avevano spedito il Tour sul Ventoux in un orario di piena calura e a distanza di tempo la mia opinione non è cambiata [7].

Aveva davanti la pietraia infinita, trapunta di piccoli papaveri gialli, preziosi come pepite d’ oro, di raponzoli di roccia blu miniaturizzati dal vento. Una duna infinita di un biancore abbagliante, con le piccole macchie verdi del ginepro nano, dove cerca protezione la Vipera ursinii ursinii. Lì Pantani scattava. Sul cranio le vene scolpite come canali di un deserto lunare. Uno scatto, due scatti, tre scatti… Al decimo scatto frullava via, libero [9]

Lo specchio delle aquile (Char), la sentinella della Provenza, il gigante della pianura, il monte calvo, il Pelato, il dio pagano, il piccolo Kilimangiàro, il Fuji-Yama provenzale, il dio del male (Barthes), il vero Moloch, il terreno dannato, la luna che brucia, la montagna del cielo e del diavolo (Godet), lo hanno chiamato in tanti modi, questo bestione che dicono abbia 95 milioni di anni di vita [8]. Le drammatiche petraie [11]. Dicono a Bedoin: "Non è pazzo chi sale al Ventoux, ma chi ci torna un'altra volta". E pochi a Bedoin hanno letto Barthes [5].

note
[1] Mario Fossati, 19 luglio 1987
[2] Francesco Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso, 25 aprile 1336
[3] Gianni Mura, 13 luglio 2007
[4] Mario Fossati, la Repubblica, 19 luglio 1995
[5] Gianni Mura, la Repubblica, 13 luglio 2000
[6] Maurizio Caravella, la Stampa, 11 luglio 1970
[7] Gino Sala, l'Unità, 19 luglio 1987
[8] Gianni Mura, la Repubblica, 26 luglio 2009
[9] Claudio Gregori, la Gazzetta dello Sport, 2000
[10] Orio Vergani, Corriere della sera, 9 luglio 1952
[11] Indro Montanelli, Corriere della sera, 15 luglio 1965

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