lunedì 13 giugno 2016

L'innamoratore

L'amore sarà pure come per William Holden e Jennifer Jones una cosa meravigliosa, ma è soprattutto un lavoro usurante. Ne sa qualcosa Ivan Sciarrino, un tipo sotto la quarantina, figlio di un'insegnante di inglese e di un autista d'autobus di Napoli che si guadagna da vivere in giro per l'Italia mettendo in gioco i sentimenti, i suoi e quelli delle donne capitate sulla propria strada. Sciarrino non le incontra, a Sciarrino le fanno incontrare. Viene ingaggiato per far perdere loro la testa, affinché lascino i mariti, pagato da chi vuol ferire in questo modo un nemico, un concorrente, un rivale. Il suo è il mestiere dell'innamoratore: pericoloso perché sa interpretarlo soltanto lasciandosi coinvolgere — come avviene molto più che in passato con la signora Soraya D'Abundo — e perché prima o poi qualcuno ti mette una bomba sotto l'auto, facendo entrare in scena un'indagine dei carabinieri e una porta dietro cui si nasconde un mistero. Coetaneo del suo rubacuori a pagamento, al suo quarto romanzo in cinque anni, Stefano Piedimonte scrive con L'innamoratore (Rizzoli, 269 pagine, 18 euro) una storia che è più interessante leggere in controluce, come apologo sull'amore mancante, quello che potrebbe essere e non è, l'amore ipotetico che non abbiamo avuto, affascinante quando si ferma poco oltre la soglia dell'immaginazione, eppure monco perché non prevede né responsabilità né usura.
Gli amori dimezzati, part time; gli amori che sono allo stesso tempo un'offerta e una richiesta d'attenzione. Quelli di Sciarrino sono corteggiamenti assai borghesi, conformi, canonici. Appartengono a un manuale che non spiazza mai. Un caffè al bar, un tavolo di ristorante, il tapis roulant di una palestra. Eppure, già questo spasimare così laccato basta per far breccia dentro le vite di donne immaginate in bilico su una fragilità perpetua e in balìa di parole tonalità pastello.
L'innamoratore Ivan, nato a gennaio, stranamente un Capricorno (passioni frenate e predilezione per rapporti duraturi), non crede in dio, non ha radici e si è «convinto di essere come la mafia, di potersi infilare nelle crepe di un rapporto andando a colmare tutti quei vuoti che la quasi totalità dei mariti lascia lì come ferite aperte rimandandone la cura». È una mina vagante, come lo chiama sua sorella Imma, che spera con delle mail senza risposta di riportarlo sulla via di relazioni fatte di carne e sangue. Giacché le facce degli innamorati, quelli veri, come ammette a un certo punto Piedimonte, sembrano uscite da una rissa. Fanno male alla generosità della trovata un po' di dialoghi che surfano in superficie alla ricerca della simpatia, così come non giova alla storia una ricerca continua della metafora, addirittura quattro nelle prime diciotto righe, tanto che dopo si smette di contarle.

(su Repubblica, 11 giugno 2016)

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