sabato 9 aprile 2016

Le parole della Parigi-Roubaix


Come già per il Poggio di Sanremo, questo è un montaggio delle parole dedicate al pavé e alla Parigi-Roubaix dai più grandi raccontatori di ciclismo della storia. Aspettando la corsa.
Ombre dei vecchi scrittori naturalisti della scuola di Emilio Zola, al tempo di “Germinal”, dovreste aiutare voi, oggi, il vecchio suiveur che ha percorso l’enfer du nord e che sbarca a Roubaix dalla sua automobile con la faccia brunita dalla polvere di carbone, con le ossa intirizzite dalla tramontana, con i denti stanchi dall’aver abbondantemente tremolato per le scosse della corsa sul pavé, con l’anima grigia per il tanto cielo grigio che mandava sul panorama della corsa la sua grigia luce da fotografia per passaporto di emigranti [1]. Sul pavé le biciclette vibrano, le telecamere tremano, le moto sobbalzano, le macchine fumano. E i muscoli si lacerano [2]. Il pavé è una brutta bestia, sia che piova sia che il sole fabbrichi polvere [3] .
la pietra
La Roubaix consta di due elementi: "la boue" e "le pavé", il fango e la pietra. Due materiali da costruzione eccezionali. "La boue", nonostante la pessima fama che è nel linguaggio - "traîner dans la boue", "trascinare nel fango" -, ha generato creature straordinarie. Con il fango, secondo la Bibbia, fu costruita la donna. E, a parte Eva e qualche altra eccezione, si tratta di un capolavoro. Con il fango si fanno le case: l'"adobe" dei paesi latino americani, ad esempio, è formato da mattoni di fango seccati al sole. Con il fango è costruita la leggenda della Roubaix. "Le pavé", invece, è il cubetto, e, poi, il selciato. Una trama dura, micidiale. Il "pavé" è crudo anche nel linguaggio: "être sur le pavé", "jeter sur le pavé", essere o gettare sul lastrico oppure, anche, "quel pavé cet article!", "che mattone quest'articolo!". Questi due elementi, "le pavé" e "la boue", i mattoni e il fango che li cementa, fanno della Roubaix un grattacielo alto 259 chilometri. Poco importa che sia orizzontale. Possono scalarlo solo gli audaci [4]Les Ponts et Chaussees - che sono poi l'Anas transalpina - hanno ricucito la Francia con una rete di strade confortevoli, di un macadam perfetto. Fra i campi di bietole e di patate, nel paese delle miniere, les Ponts et Chaussees hanno, però, volutamente scordato una ragnatela di inverosimile pavé che si fa più arcaico sprofondando nella terra rossastra. L'Equipe, il giornale organizzatore, protegge queste vene di pietra, dal rilievo ipertrofico, che solcano un paesaggio drammatico: e a primavera puntualmente le ripropone nella Parigi-Roubaix. I carri di carbone, i "carichi" dalle enormi ruote più non esistono e il pavé si schiaccia e si alza a "guscio di granchio" sotto i gommoni dei trattori. La Roubaix, diceva Henri Desgrange, e lo ripeteva Jacques Goddet, è l'eccesso che permette l'identificazione [16].
da ascoltare in sottofondo: Alessio Lega & Mokacyclope, "Sotto il pavé la spiaggia" 
(segnalato nei 100 nomi dell'anno da Gianni Mura il 30 dicembre 2006)

A Roubaix si potrebbe arrivare benissimo dalla parte di Lilla, forse con lo stesso chilometraggio o pochissimo in più su una strada internazionale dal perfettissimo fondo in asfalto; ma la classicissima francese è stata corsa sempre attraverso l’inferno del nord e guai a far notare agli organizzatori che è antitecnico e controproducente, esattamente a metà del ventesimo secolo, legare le sorti di una grande corsa internazionale come la Parigi-Roubaix ad una tradizione largamente superata [5]. Andare a Roubaix in bicicletta, ai confini del Belgio, sul pavé battuto dal duro zoccolo dei giganteschi cavalli normanni, era un modo come un altro per dichiarare guerra all’Oscurantismo. (…) Era un modo di credere nel progresso, nella futura felicità della specie umana, nella vittoria finale delle buone energie virili dei nostri nonni dai grandi baffoni neri. E perché dovremmo dimenticare i buoni insegnamenti di quei nostri nonni? [1].
la storia
La Parigi-Roubaix è un simbolo di risurrezione. Si disputava, infatti, il giorno di Pasqua. Perciò venne chiamata "La Pascale". Poco importa che quell'incontro con il sacro abbia generato scintille. Si cercò, infatti, subito di sopprimere la Roubaix perché collideva con la Messa nel giorno trionfale della Risurrezione. In effetti la Roubaix sembra disegnata dal diavolo. Un Mefistofele fantasioso e creativo. Il primo a parlare di "projet diabolique" fu Victor Breyer, il giornalista che la provò sotto la pioggia alla vigilia della prima edizione e si batté perché non fosse corsa. Da un secolo "L'Enfer du Nord" è lì. La Roubaix è un girone dantesco riservato ai corridori. Un luogo di espiazione e tormento. Ed è proprio questo che rende grande chi ci entra  [4]. Fu Maurice Garin, vincitore - ancora da valdostano prima di diventare francese - della seconda edizione nel 1897 e della terza nel 1898, a giudicarla «l'inferno del nord». Lui, che dal 1895 al 1901 abitava a Roubaix e gestiva un negozio di bici, lo sapeva. Altri l'hanno ribattezzata «la regina delle classiche» e «la classica delle classiche». Ma c'è anche chi l'ha definita «pellegrinaggio» (Henri Pélissier), «porcheria» (Bernard Hinault) e «ciclocross» (Beppe Saronni). Per la sua natura archeologica la Parigi-Roubaix è vischiosa, infiammata, irta, rossa di porfido e nera di carbone, forestale e minerale, infame e meravigliosa. Terribilmente affascinante [6]. Theo De Rooy, olandese, fu ancora meno elegante: la corse da protagonista, non riuscì a salire sul podio e, intervistato, sentenziò: «Questa corsa è solo un mucchio di merda». L'intervistatore, imbarazzato, non trovò altro da chiedergli se l'avrebbe mai più corsa. E De Rooy: «Certo, è la corsa più bella del mondo» [7].
La Roubaix comincia come una festa e finisce come un incubo. (Guy Lagorce, giornalista e scrittore francese)
La Roubaix ha cambiato denominazione: dapprima era la Pascale (i poveri erano davvero matti a divertirsi, con un gioco che ha per regola la sconciante fatica, soffrendo il giorno di Pasqua, in un maremoto di pietra) e poi la "reine". La "course maudite", trasformava, infatti, il suo vincitore, da sfaticatore di strada in principe. "Travail de trimards... victoires de princes" scriveva Jacques Goddet, che era lietissimo (accadde nel 1975) allorché, attorno al 146° chilometro, in località "Inferno del nord", pareva che tutti i diavoli si fossero dati convegno: avessero insomma invaso un pavé sgretolato dalle intemperie, attraversato dalle carreggiate, vischioso o scivoloso, a secondo del centimetro quadrato su cui le ruote posavano [8]. L’inferno del nord può non essere caldo, può essere senza fiamme e senza fumo, ma tra i suoi tormenti ci possono essere quelli del freddo, del grigio, della melanconia [1]. Viene considerata da sempre, a giusto titolo, la corsa più dura del mondo [9]. Il dover lanciarsi a 40 all’ora sull’infame acciottolato, dove – secondo la pittoresca ma azzeccata definizione di un corridore – sembra di stringere non già il manubrio della bicicletta ma un martello perforatore, e continuarvi lo sforzo saltellando dalla stretta e insidiosa banchina sul pavé e viceversa nella vana ricerca d’un momento di requie a quello strazio, pone i corridori di fronte a un imprevisto e serio problema: quello del materiale, giacché la difficoltà consiste nel superare il tratto pericoloso senza che le forature, o peggio, arrestino inesorabilmente lo slancio del corridore [10].
la fatica
E’ una corsa maledetta. Qui, dicono addirittura ch’è un viaggio d’andate e ritorno all’inferno. E, infatti, quando un po’ dopo il rifornimento di Arras, il gruppo lascia l’asfalto e si scompone sul pavé, diventa davvero la messa in scena per un dramma del teatro del Grand-Guignol. Non c’è scampo per chi non conosce l’arte di salir e scendere dalle banchine, sentieri larghi un metro, anche meno, dove l’abilità è decisiva. Perché il tremendo ballo sulle pietre dà la scossa elettrica ai polsi, alle caviglie: e acuto, lancinante il dolore arriva al cervello. Poi, la polvere di carbone che acceca. Oppure, il fango che costruisce sulle facce scavate e sgualcite dall’orgia della fatica mostruose maschere nere, accese dalla luce febbrile degli occhi iniettati di sangue [11]. I ciclisti italiani giurano che in queste corse si respira aria buona, anche se le strade passano sovente nei paesi delle miniere dove il vento porta in giro polvere nera, abrasiva e intossicante [12]. La Roubaix è calvario. Si parte da Compiègne, dove fu arrestata Giovanna d'Arco. Proprio dalla Place du Palais, il castello, dove Genova firmò il trattato che cedeva la Corsica alla Francia. Il castello di Napoleone. Si parte, infatti, per una napoleonica campagna di guerra. Molti di quei cavalieri avranno la gualdrappa coperta di fango. La sfida è di una bellezza primitiva [4]. La letteratura che la circonda la vuole funesta anche quando, nel paesaggio drammatico delle miniere, un sole smunto trema sui tetti di ardesia e la polvere di carbone dai margini entra nei polmoni, nel fegato e ricuce le ciglia dei candidati alla gloria. Una scritta, illustrava i datatissimi cubetti di granito, già percorsi, all'epoca romana, dalle gigantesche ruote dei carichi di carbone. Incuteva rispetto [8].
i colori e il pericolo
Alla Roubaix il colore fiammeggia nel fango. Le labbra dei suoi eroi sono rosse come papaveri. Sono pennellate "fauves" quelle che dipingono le loro maglie. Anche quando i cavalieri sono senza volto. Hanno, però, gli occhi, dove cova una luce forte e viva. Hanno il cuore [4]. Tra i pittori, nelle giornate di vernice delle grandi esposizioni, si sentono abitualmente elogiare quei pittori che dispongono, come si dice in gergo tecnico, di una buona gamma di grigi. Avrei voluto avere oggi in macchina con me uno di quei pittori che dispongono di variazioni, all’infinito, di grigi delicati, sottili, tenui, estenuanti… Avrei voluto chiedergli il segreto della così detta “bellezza dei grigi”: il grigio-peltro, il grigio-argento, il grigio-ghisa, il grigio-ferro, il grigio-topolino… (…) Alla lunga, quei grigi ti entrano nell’animo, nelle vene, nelle ossa, nei nervi [13]. Eccoci qui con il lessico pronto: l’inferno, il freddo, il pavé, le cadute, l’agonismo, il destino, la gloria. Epica ed etica più vicine addirittura di quanto indichi la grafia delle due parole, e idem per mitica e mistica [12].
La Roubaix è riservata a un'élite di specialisti. Uomini forti. Equilibristi sul filo, esposti al pericolo. La Roubaix spesso è dramma. La caduta fa parte della trama. Appartiene alla sua storia [4]. Il ciclismo rimane pur sempre un mondo misterioso, anche se popolato da tecnocrati, da docenti universitari, a volte in libera uscita, da sponsor ingordi che non disdegnano il mestiere del furbo, da moralisti calvinisti, che sconfinano spesso nell'ipocrisia. La Roubaix lo riporta alla leggenda, cui, forse, sopravvive [8].
la foresta
La Roubaix è, sulla mappa, una corsa piatta. Dislivello zero. Come una tappa del Giro del Burkina Faso. Ma se si contasse il dislivello fra una pietra e l'altra nei 51,5 km dei 27 settori di pavé, verrebbe fuori un'altimetria dolomitica (...). La Foresta di Arenberg, dopo 172 km, lunga 2400 metri. Si chiama «Drève des boules d'Hérin», il passaggio delle betulle di Hérin. E' una strada nel bosco. Da una parte la foresta, poi un fossato con acqua stagna, poi una striscia di terra e polvere grigia e avanzi di miniera, poi una transenna, poi la strada in pavé, poi una zona di terra sottratta alla foresta e smossa da una scavatrice (così chi cade, si fa meno male), poi un altro fossato, poi ancora la foresta. La chiamano anche «la trincea». Per quel senso di strada militare e di gogna militaresca che la contraddistinguono. Per entrare nella Foresta, il gruppo disputa una volata, complice anche una leggera discesa, a 70 all'ora. Per guadagnare la migliore posizione. Chi rimane indietro, è tagliato fuori. Come rimanere indietro di un passo in un tappone alpino. Due chilometri e mezzo affrontati a 70 all'ora e poi volati a 50, è un'esperienza traumatizzante, a volte ortopedica. Come chiudersi in una lavatrice con Mike Tyson, saltare prelavaggio e lavaggio, e passare direttamente alla centrifuga [7]. Non è nella foresta che vinci la Roubaix. Nella foresta puoi perderla [15]. Il ballo sul selciato, l’equilibrismo sulle banchine, l’acrobazia degli specialisti [1]. Il tema di esistenza, esagero, per un corridore ciclista è il percorso. La strada. Il fondo stradale della Roubaix viene addirittura personificato: maligno, aspro, scistoso. (...) Su quelle piste immonde di selci irregolari, di ineguali blocchi di granito, coperte di una polvere di carbone che si trasforma in pece non appena la pioggia le inzuppa o che entra negli occhi, nei polmoni, nel fegato se il vento la spazzola [16].
l'arrivo
I corridori la chiamano Roubaix perché a Parigi ci sono sempre tutti, ma è a Roubaix che tocca arrivare [17]
Nella Roubaix, è risaputo, pochi sono gli eletti e molti i dannati. L' aristocrazia è riconoscibile dai superstiti, dalle rare persone che si salvano. Il fuoco centrale dell'aprile, non vi è dubbio, era e rimane la Parigi-Roubaix. Gli altri traguardi, al cospetto, impallidiscono [18]. E' una corsa affascinante, perfida. Se la eviti, a mezzo di una rinuncia, la Roubaix ti dichiara subito uno sconfitto [19]. La Parigi-Roubaix è come il funerale dell’imperatore Hirohito, bisogna presenziare al rito di morte per far sapere che si è pienamente vivi [14]. Roubaix è vicina. Ne sento il puzzo tra gli spruzzi di fango che le moto alzano. Vedo le montagne di carbone appollaiate rancide e tetre ai bordi della strada. Sembra una visione di guerra. La strada è una sporca mulattiera. L’auto vi passa a malapena. Al centro ha una gobba continua. La terra con la pioggia ha finito lentamente per cedere sotto il peso dei carri bestiame. Anche le case sono poche, rarefatte e impalpabili come dietro una nuvola. Le vedo tra gli schizzi, in soggezione d’allegria, disabituate alla gente. Davanti un mare d’erba rigato da questa strana corsia di piccole pietre, sconnesse, appuntite, disperse con rabbia, la stessa rabbia che devono aver avuto nel piantarle, probabilmente in un giorno… [20]. Per vincere la Roubaix bisogna saper andare fino in fondo alla fatica, è una corsa che succhia l'anima e i nervi. Per vincere a Roubaix bisogna saper mangiare polvere e fango, essere acrobatici e potenti [21]. Ho seguito la classicissima Parigi-Roubaix proponendomi di non andare oltre il compito di Ersatz o surrogato della macchina da presa. E in effetti il ciclismo mi è subito apparso qual era: un tumultuoso epos di poveri. La canzone delle loro gesta assumeva i ritmi concitati ma umili della prosa quotidiana [22].
note
[1] Orio Vergani, Corriere della sera, 9 luglio 1955
[2] Marco Pastonesi, Gazzetta dello sport, 12 aprile 1999
[3] Gianni Mura, Repubblica, 9 luglio 2014
[4] Claudio Gregori, Gazzetta dello sport, 9 aprile 2005
[5] Giuseppe Sabelli Fioretti, Corriere dello sport, 11 aprile 1950
[6] Marco Pastonesi, Gazzetta dello sport, 9 aprile 2015
[7] Marco Pastonesi, Gazzetta dello sport, 10 aprile 2011
[8] Mario Fossati, Repubblica, 13 aprile 1997
[9] Bruno Raschi, Gazzetta dello sport, 14 aprile 1980
[10] Vittorio Varale, la Stampa, 9 aprile 1955
[11] Attilio Camoriano, l'Unità, 18 aprile 1964
[12] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 12 aprile 1986
[13] Orio Vergani, Corriere della sera, 7 luglio 1953
[14] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 9 aprile 1989
[15] Eddy Merckx
[16] Mario Fossati, Repubblica, 12 aprile 1996
[17] Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, "Vedrai che uno arriverà", Absolutely Free, 2014
[18] Mario Fossati, Repubblica, 14 aprile 1987
[19] Mario Fossati, Repubblica, 13 aprile 1986
[20] Mario Sconcerti, in "Eroi pirati e altre storie su due ruote", Bur, 2010
[21] Gianni Mura, Repubblica, 8 febbraio 2010
[22] Gianni Brera, Gazzetta dello sport, in "Eroi pirati e altre storie su due ruote", Bur, 2010

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