martedì 1 settembre 2015

Addio a Cancogni, un premio Strega ai Mondiali

canco
Manlio Cancogni, morto oggi a 99 anni
"Vedendo avanzare quella sagoma potente avevo provato una sensazione di vuoto allo stomaco, e come se una mano estranea avesse sospeso le mie facoltà vitali". Manlio Cancogni era rimasto affatturato da Coppi, dal suo lento avanzare in salita, lento ma meno lento degli altri. Quando il grande Fausto morì, così lo celebrò, in due pagine sull’Espresso, rievocandone un’impresa sull’Appennino in Toscana. Cancogni raccontava di un nubifragio che l’aveva sorpreso e di essersi rifugiato con un collega a Pistoia, in un sottopassaggio. “D’improvviso schiarì e apparve, in fuga, sulla strada lucida di pioggia, lui, Coppi…”. Era bartaliano, Cancogni: lo trovava più intelligente, mentre Coppi gli appariva nevrotico e malinconico: “Aveva la morte addosso”. Il Giro d’Italia lo aveva seguito da inviato, sin dal ’48 per “Il mattino dell’Italia centrale” di Firenze, secondo la tradizione italiana di arruolare scrittori dietro il ciclismo: Campanile, la Ortese, Buzzati, Pratolini, Malaparte, Gatto, Parise, Zavattini. Va detto che il rapporto fra la cultura letteraria italiana e lo sport è stato a lungo controverso, segnato da una discriminazione, dal pregiudizio che esistesse una materia “alta” e una materia “bassa” (lo sport era materia “bassa”), poi per l’uso propagandistico che il regime fascista aveva fatto delle vittorie sportive, infine in qualche misura anche da questo registro letterario adottato dalle pagine sportive dei quotidiani. Come se il pubblico potesse vedere soddisfatta già lì la propria voglia di narrazione sportiva. Cancogni viveva invece la passione per lo sport senza transenne. Un anno dopo aver vinto il premio Strega con “Allegri, gioventù” (Rizzoli, 1973) andava ai Mondiali di calcio in Germania per il Corriere della Sera. Nel ’58 aveva scritto di atletica per la Stampa dagli Europei di Stoccolma e solo due anni prima aveva dedicato uno dei suoi romanzi a un cavallo da corsa “La carriera di Pimlico”: un cavallo da piazzamenti, mediocre, una storia di sofferenza, la condizione dell’uomo medio, scrisse l’Unità “appena accesa da qualche sprazzo di successo in una società che tutto sacrifica al mito del purosangue e della meritocrazia borghese; una società scuderia in cui la massima libertà concessa è il capzioso allentamento delle briglie, per dequalificare e sfruttare altrimenti le residue energie dell’uomo-massa”.
Mentre Hemingway scriveva di boxe, e come lui più tardi Joyce Carol Oates e Norman Mailer, questa separazione fra il grosso del mondo italiano delle lettere e la materia sportiva era ben presente a Cancogni, che chiamava “letterati totali” quelli che con le loro opere dallo sport si tenevano distanti, forse per snobismo o che. Nel 1982 sarebbe tornato al campo, ancora alla nazionale italiana di calcio, ancora un Mondiale, in Spagna, seguito per il Giornale di Montanelli. In “Storia delle idee del calcio” Mario Sconcerti ricorda le cene al termine delle giornate di lavoro. Con Gianni Brera, Mario Soldati e Manlio Cancogni. "Io li guardavo dalla mia minestra e pensavo. Erano tre tra i più grandi scrittori e giornalisti d'Italia. E si detestavano sinceramente, direi di più visceralmente". È da allora che un premio Strega non segue più un Mondiale di calcio o un’Olimpiade.

mister Al calcio Cancogni si sarebbe dedicato ancora nel 2000 con un altro romanzo, “Il Mister” (Fazi), ambientato nella Roma degli anni Trenta, in un calcio non ancora dominato dal denaro. Una storia di pallone e adolescenza, una squadra che si chiama verghianamente Malafronte, guidata da uno slavo naturalizzato italiano Vecto Zoran. Tanti videro nell‘enigmatico Zoran il riflesso di Zeman, al quale peraltro il romanzo è dedicato: era una sorta di suo antenato romanzesco. E per la casa editrice di Cairo, Cancogni avrebbe poi raccontato il suo amore per il “Toro delle meraviglie” e la prima volta che aveva visto Valentino Mazzola a Livorno: la passione sua e di un popolo, tradotta nella figura del cieco che si faceva accompagnare allo stadio e raccontare la partita dal vicino. Ed era con la maglia granata addosso che Cancogni giocava lunghissime partite di calcio a Villa Borghese.

Michele Malafronte sedette a gambe larghe su una panca posta a metà campo, sotto un ombrellone da spiaggia a spicchi colorati; il presidente della Ster s’accomodò a pochi passi da lui, in una poltrona di vimini. L’arbitro, guardato l’orologio, con grande convinzione dette fiato al fischietto, e s’allontanò dal centro del campo correndo all’indietro. Zoran, che teneva un piede sul pallone, dette il calcio d’inizio, passando al compagno più vicino. Ugo, libero da ogni paura e preoccupazione, passate e da venire, e quasi ignaro di se stesso, si abbandonò alla delizia ineguagliabile che prova chiunque veda un essere amato fare tutto ciò che si attende da lui, delizia appena sfiorata dal timore che qualcosa possa offenderlo e ferirlo
(da "Il Mister")

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