sabato 31 agosto 2013

Il senso di Guardiola per l'abbraccio

Li ha abbracciati uno per uno. Tutti. Sul campo, in tribuna, di nuovo sul campo. Non era un rito anonimo quella stretta di Guardiola ai suoi uomini, i primi a dargli un titolo senza Messi. C'era intimità, c'era l'esibito piacere di un gesto di cui Pep ha raccontato di avere un terribile bisogno. “Per convincerli che l’idea è una”. Così raccontò a maggio scorso, quando in pieno anno sabbatico volò in Argentina per un ciclo di conferenze sulla sua idea di calcio, una coerente appendice della sua idea di mondo. Parlò dell'abbraccio e del suo metodo d'insegnamento, la sua maniera di costruire un gruppo, di gestirlo, brutta parola, meglio dire di viverlo. E parlò di Messi, l'uomo che forse più di tutti gli è capitato di abbracciare. Ne parlò sorprendendo gli argentini. Ora che si è scollato di dosso l'ombra di Leo vincendo anche senza di lui, la rilettura di quelle frasi racconta un Guardiola privato. Venti frasi. Eccole:


“Ho bisogno di avere un contatto fisico con i giocatori, abbracciarli, gridare. Per convincerli che l’idea è una”.
“Le cose che non si sentono, non c’è libro che te le insegni”.
“Non provate a cambiare i calciatori. La chiave è sapergli schiacciare il bottone”.
“Nel calcio vale tutto”.
“Le idee appartengono al mondo. Io ho rubato tutto quello che potevo. E tutti possono rubare da me”.
“Quando ero un calciatore, mi mandava nel panico l’idea di entrare in campo senza sapere cosa sarebbe successo. Per questo ai miei giocatori provo sempre ad anticipare cosa potrebbe succedere, e come vincere se dovesse verificarsi quella situazione”.
“I calciatori non sono stupidi. Devi dargli delle soluzioni”.
“Mi fa piacere guardare in video i meccanismi della prossima squadra avversaria e immaginare come un nostro giocatore può far saltare tutto”.
“Molti dicono che si deve correre poco e che deve correre il pallone. Io non ci credo. Sono meno romantico di quanto sembro”.
“C’è bisogno degli sforzi di tutti, nessuno può starsene spaparanzato. Me l’ha insegnato Bielsa”.
“La mia tattica è cercare spazi in cui passarsi la palla, per poi approfittarne negli ultimi metri”.
“Il portiere gioca. Si parte dal suo lato per arrivare all’altro. I cervelli si muovono in mezzo. Gli attaccanti sono i primi a difendere e i difensori i primi ad attaccare. Il passaggio all’indietro è il miglior passo avanti nell’azione”.
“Nell’area avversaria ci si arriva, non ci si ferma. E’ nella propria area che bisogna insediarsi”.
“Io sono un egoista. Voglio che il pallone sia mio, che me lo consegnino, voglio provocare l’errore altrui”.
“Sono sempre più sereno nell’altra metà del campo. Chiedo solo che ci consegnino la palla e poi tenere tanta gente a centrocampo. Lì ne voglio sempre uno in più degli altri.
“I migliori giocano al centro. Per questo un giorno ho spostato Messi lì”.
“Leo, da centravanti, rientrava e i due centrali avversari non uscivano dall’area per non lasciare spazi. Così potevamo guadagnare superiorità in mezzo. In un secondo momento, gli altri allenatori hanno cominciato ad avanzare un centrale. Allora noi mandavamo Piqué in mezzo per ristabilire la superiorità. Altre volte ho mandato Piqué centravanti per non far scendere i centrali avversari. Certo, un rischio. Ma un allenatore serve a decidere”.
“Non mi è costato convincere Messi a passare dalla fascia destra al centro. Ha imparato subito. Tu lo metti terzino e lui impara. E’ il miglior difensore che esista. Se si mette nella testa di rubare la palla, lui va e la ruba. Non conosco nessuno che lo faccia meglio di lui”.
“I calciatori giocano, Leo dipinge. Lui mi ha dato più di quanto io abbia dato a lui. La mia vita non sarebbe stata la stessa. Non avremmo vinto tanto senza di lui. Contro Messi si fa quello che si può. Se questo fenomeno afferra la palla in mezzo a quattro, si gira e la mette all’incrocio, ditemi che merito posso avere io”.
“Alla fine conta l’idea. La sola cosa che conta è la convinzione di averne una”.
Li ha abbracciati uno per uno. Tutti. Sul campo, in tribuna, di nuovo sul campo. Non era un rito anonimo, quella stretta di Guardiola ai suoi uomini, i primi a dargli un titolo senza Messi. C'era intimità, c'era l'esibito piacere di un gesto di cui Pep ha raccontato di avere un terribile bisogno. “Per convincerli che l’idea è una”.
Così raccontò a maggio scorso, quando in pieno anno sabbatico volò in Argentina per un ciclo di conferenze sulla sua idea di calcio, coerente appendice della sua idea di mondo. Parlò dell'abbraccio e del suo metodo d'insegnamento, della sua maniera di costruire un gruppo, di gestirlo, brutta parola, meglio dire di viverlo. E parlò di Messi, l'uomo che forse più di tutti gli è capitato di abbracciare. Ne parlò soprendendo gli argentini. Ora che si è scollato di dosso l'ombra di Leo vincendo anche senza di lui, la rilettura di quelle frasi racconta un Guardiola privato. Venti frasi. Eccole: “Ho bisogno di avere un contatto fisico con i giocatori, abbracciarli, gridare. Per convincerli che l’idea è una”. “Le cose che non si sentono, non c’è libro che te le insegni”. “Non provate a cambiare i calciatori. La chiave è sapergli schiacciare il bottone”. “Nel calcio vale tutto”. “Le idee appartengono al mondo. Io ho rubato tutto quello che potevo. E tutti possono rubare da me”. “Quando ero un calciatore, mi mandava nel panico l’idea di entrare in campo senza sapere cosa sarebbe successo. Per questo ai miei giocatori provo sempre ad anticipare cosa potrebbe succedere, e come vincere se dovesse verificarsi quella situazione”. “I calciatori non sono stupidi. Devi dargli delle soluzioni”. “Mi fa piacere guardare in video i meccanismi della prossima squadra avversaria e immaginare come un nostro giocatore può far saltare tutto”. “Molti dicono che si deve correre poco e che deve correre il pallone. Io non ci credo. Sono meno romantico di quanto sembro”. “C’è bisogno degli sforzi di tutti, nessuno può starsene spaparanzato. Me l’ha insegnato Bielsa”. “La mia tattica è cercare spazi in cui passarsi la palla, per poi approfittarne negli ultimi metri”. “Il portiere gioca. Si parte dal suo lato per arrivare all’altro. I cervelli si muovono in mezzo. Gli attaccanti sono i primi a difendere e i difensori i primi ad attaccare. Il passaggio all’indietro è il miglior passo avanti nell’azione”. “Nell’area avversaria ci si arriva, non ci si ferma. E’ nella propria area che bisogna insediarsi”. “Io sono un egoista. Voglio che il pallone sia mio, che me lo consegnino, voglio provocare l’errore altrui”. “Sono sempre più sereno nell’altra metà del campo. Chiedo solo che ci consegnino la palla e poi tenere tanta gente a centrocampo. Lì ne voglio sempre uno in più degli altri. “I migliori giocano al centro. Per questo un giorno ho spostato Messi lì”. “Leo, da centravanti, rientrava e i due centrali avversari non uscivano dall’area per non lasciare spazi. Così potevamo guadagnare superiorità in mezzo. In un secondo momento, gli altri allenatori hanno cominciato ad avanzare un centrale. Allora noi mandavamo Piqué in mezzo per ristabilire la superiorità. Altre volte ho mandato Piqué centravanti per non far scendere i centrali avversari. Certo, un rischio. Ma un allenatore serve a decidere”. “Non mi è costato convincere Messi a passare dalla fascia destra al centro. Ha imparato subito. Tu lo metti terzino e lui impara. E’ il miglior difensore che esista. Se si mette nella testa di rubare la palla, lui va e la ruba. Non conosco nessuno che lo faccia meglio di lui”. “I calciatori giocano, Leo dipinge. Lui mi ha dato più di quanto io abbia dato a lui. La mia vita non sarebbe stata la stessa. Non avremmo vinto tanto senza di lui. Contro Messi si fa quello che si può. Se questo fenomeno afferra la palla in mezzo a quattro, si gira e la mette all’incrocio, ditemi che merito posso avere io”. “Alla fine conta l’idea. La sola cosa che conta è la convinzione di averne una”.

Nessun commento: